Nel 1886 un paziente dell’ospedale psichiatrico racconta in una lettera al direttore Achille Sacchi la sua vita rocambolesca fra viaggi, arruolamenti, arresti e scarcerazioni: “Ecco la mia sventura”
“Il mio continuo moto, i passati viaggi, e tante altre coserelle mi aveano appo le autorità fatta acquistare la fama di alterato di mente, e una inavvertenza che commisi in una locanda a Reggio la vigilia della mia presentazione al Distretto, persuase le medesime autorità pormi nel frenocomio in osservazione”.
Avventuriero sì, vittima di diverse incomprensioni anche, ma matto no. Eppure, fu proprio una vita rocambolesca a condurlo dritto dritto in manicomio. La storia di uno sventurato paziente dell’ospedale psichiatrico di Mantova, nato nel 1863, si dipana fra rotte di velieri, arruolamenti, renitenze. Fughe, ritorni, arresti, scarcerazioni. Un susseguirsi ininterrotto di vicende incredibili, che anche la fantasia più fervida faticherebbe a immaginare.
È lui stesso a raccontarsi in una lettera a cuore aperto inviata l’11 febbraio 1886 al direttore della struttura mantovana, “esimio signor dottor Achille Sacchi”. Pagine fitte di un intreccio degno di un romanzo, cariche di sofferenza per un destino avverso. Dopo alcuni anni al collegio Schiantarelli di Asola, i genitori decidono di mandare il giovane a Palermo a casa di uno zio per fargli terminare il ginnasio. Finite le scuole, un anno in mare propedeutico a una potenziale carriera nautica e poi il ragazzo è richiamato in famiglia, che si è trasferita in un paese della provincia di Urbino, Montefelcino, per il lavoro del padre, medico condotto.
Qui iniziano le sciagure, visto che l’uomo si innamora di una giovane serva e la mette incinta, decidendo di vivere con lei altrove, in provincia di Pisa. La madre torna allora dai suoi genitori e il figlio viene affidato dalle autorità al marito. Comincia così il peregrinare di casa in casa, di provincia in provincia del ragazzo al seguito del genitore e dell’amante, insieme agli inevitabili attriti che nascono con la donna. L’unica soluzione sembra essere l’arruolamento come volontario nella “78° fanteria di guarnigione in Mantova”. Detto, fatto. Riformato per una bronchite, arriva il congedo illimitato. L’ex fante si risolve allora “a cercare nell’esilio quel conforto che in patria non avea trovato”. Da qui un viaggio infinito: Reggio Emilia, Venezia, l’Appennino, Genova, fino all’ingaggio nella Legione Straniera. Quindi Algeria, Marocco, Barbados, Venezuela, New York, Liverpool, Londra, passando da un lavoro all’altro.
“In un albergo – prosegue il malcapitato – aveo chiesto carta luttata per scrivere a mio padre (era morta la nonna da poco) e la padrona spaventata, supponendo volessi suicidarmi (essendosi 2 mesi prima ivi pure ucciso un viaggiatore), ne fece avvertire la polizia, la quale mi fece portare nel frenocomio”. E ancora: “Ad ogni modo nessuno al mondo si è presa la cura di dire: aspetta che ti stradi, che ti aiutiamo a farti una posizione…oh no! È un matto han detto, e con quello si sono lavati le mani”.
La goccia che fa traboccare il vaso è un’accusa di omicidio infondata, quando l’avventuriero raggiunge la Garfagnana per assistere i malati di colera. Vuole dare una mano, ma il suo gesto di generosità finisce male: “Morì un caporal furiere; su me cadde il dubbio che per mezzo di dose di laudano troppo carica l’avessi fatto morire. Fui arrestato: la nomina di pazzo mi aggravò la posizione”. Nel frattempo si esegue l’autopsia, che esclude la presenza di veleno nel corpo del militare: “…mentre sull’ala del telegrafo giungeva dalla Procura Generale del Re l’ordine di farmi libero per insussistenza del reato di veneficio, venivo condotto nel manicomio di Genova il 4 gennaio 1885!”. Dì lì a un mese e mezzo la libertà. Che dà il via ad altri viaggi e peripezie di ogni sorta, fino all’internamento a Mantova.
Commuove la chiosa della missiva, in cui il ‘paziente’ fa appello alla sensibilità di padre di Achille Sacchi e chiede in ginocchio “che non spiri la settimana” senza che lui sia tradotto in carcere. Anche la galera per espiare l’ennesima pena inflitta più o meno ingiustamente, piuttosto del manicomio: “…veggo il passato, l’operato, mi propongo un migliore avvenire, ma nessuno però de’ miei mi stende una mano a dirmi: Infelice! Vieni, ti additerò la via! No!…Mio padre vive? L’ignoro! Come egli ignora se pur io sono fra i viventi o nel fondo di una galera. Mia mamma vive? L’ignoro pure, come essa ignora di me. I miei zii che fanno? Sallo il cielo, ed io intanto, fra quattro mura d’un manicomio sto attendendo che la scienza risolva il problema che la giustizia le ha dato a sciogliere su di me”.
Elena Miglioli è il direttore del periodico Mantova Salute, responsabile dell’Area Ufficio Stampa e Comunicazione di ASST Mantova. Giornalista professionista, scrittrice, poetessa. Ama tutte le forme d’arte, ma mette la musica (classica) al primo posto.