Francesca Dambruoso, fisiatra, a Baghad, Lesbo e in Nord Africa: “Ho visto situazioni si sofferenza difficilmente immaginabili”
Esperienze che fortificano, che arricchiscono. Che aiutano a vivere con maggiore consapevolezza e intensità anche la realtà quotidiana. Francesca Dambruoso, 37 anni, fisiatra dell’ospedale di Bozzolo le ha vissute partendo con Medici Senza Frontiere. Ha visto scorci di sofferenza “che non potremmo nemmeno immaginare”. Ma dopo tre missioni la valigia e il cuore sono già pronti per la prossima chiamata. Che certamente non si farà troppo attendere.
Come è iniziata questa avventura?
Da ragazzina, durante le vacanze, con una piccola associazione di Mestre. Meta il Brasile. Il viaggio mi aveva colpita particolarmente e ricordo di avere pensato che mi sarebbe piaciuto fare di più. Così mi sono rivolta a Medici Senza Frontiere. La prima missione è durata cinque mesi. A Lesbo, in Grecia, per un progetto sull’immigrazione. Mi occupavo di assistenza medica di base in un campo profughi. Funziona così: si diventa operatori umanitari, professionisti che mettono a disposizione le loro competenze sospendendo momentaneamente il proprio lavoro ordinario. Nel 2018 ho trascorso due mesi a Baghdad come fisiatra in un ospedale che per le vittime di guerra. Mi occupavo di riabilitazione. Nel 2019 altri due mesi in Nord Africa, mi sono dedicata alle vittime di tortura e violenza sessuale come medico supervisore dei colleghi del luogo.
Qual è stata l’esperienza che ti ha segnata di più?
Il bilancio è sempre positivo, sia dal punto di vista umano che professionale, ma il progetto più duro è stato quello che ho seguito in Nord Africa. Le persone vivevano situazioni di grande emarginazione e dolore sia nel Paese di provenienza che in quello di accoglienza. Riportavano conseguenze difficilmente guaribili, che mi facevano sentire anche impotente. Ragazze e ragazzi, bambine con trascorsi impensabili. Ho imparato che non bisogna lasciare troppo spazio alle domande, perché è impossibile trovare risposte a tutto. Serve mettersi in gioco, con le proprie forze, senza pretendere di salvare ciò che non può essere salvato, ma facendo sempre del proprio meglio.
In che modo sei cambiata come persona e come professionista?
Da un lato sono diventata più consapevole di quanto siamo fortunati in certe parti del mondo e di quanto la vita può essere imprevedibile. Ho imparato l’accettazione e la tolleranza, non solo perché si relativizza tutto, ma anche perché si riesce a migliorare la capacità di ascolto degli altri. E questa capacità la si porta a casa. Inoltre sono nati legami molto forti con colleghi o con pazienti e i rapporti restano vivi, nonostante la distanza fisica.
Tutta la sofferenza che hai incontrata ti ha mai messa in crisi…?
Sì, mi è capitato. Ma si riesce in qualche modo a trovare la giusta distanza, pur mettendoci l’anima. E poi torna subito lo slancio per continuare a darsi da fare.
Che analogie hai riscontrato fra la pandemia da Covid e le altre emergenze umanitarie?
Per un paio di mesi ho lavorato all’ospedale di Pieve di Coriano dedicandomi a questi malati e mi è sembrata una situazione molto simile a quelle vissute all’estero. Mi sono sentita in qualche modo preparata. Mi ha aiutata avere già sperimentato la necessità di trovare soluzioni rapide e affrontare gli imprevisti.
C’è una storia particolare che ti è rimasta dentro?
Sì, quella di una mamma siriana che si è caricata letteralmente sulle spalle tre figli per affrontare una traversata della speranza a bordo di un gommone dalla Turchia a Lesbo. Due dei bambini erano in carrozzina, a causa dell’esplosione di una bomba. Una donnina minuscola, una forza e un coraggio straordinari. Rischiare tutto pur di portare i figli gravemente disabili al sicuro. Sono rimasta sconvolta.
Elena Miglioli è il direttore del periodico Mantova Salute, responsabile dell’Area Ufficio Stampa, Comunicazione e Urp ASST di Mantova. Giornalista professionista, scrittrice, poetessa. Ama tutte le forme d’arte, ma mette la musica (classica) al primo posto.