Un’infermiera dalla Pediatria al reparto Covid: “Vi racconto le difficoltà e la grazia di questa esperienza”

Riportiamo la testimonianza portata da un’infermiera in occasione dell’incontro fra il vescovo di Mantova e gli operatori del Poma, che si è tenuta il 15 dicembre in ospedale.

 

Sono infermiera in pediatria. Don Stefano mi ha coinvolta per una piccola testimonianza in merito all’esperienza vissuta di questa pandemia. All’inizio ho tentato di tergiversare in quanto sicuramente ci sono colleghi che hanno vissuto l’esperienza più in prima linea, ma poi dopo un po’ di insistenza e comunque dicendomi che si tratta solo di raccontare una piccola esperienza rispetto al tutto di quello che ogni collega ha vissuto…ho accettato ed eccomi qui.

Iniziata l’emergenza sanitaria in marzo, nel nostro reparto di Pediatria rimaneva una situazione routinaria, anzi quasi più leggera poiché avendo chiuso le scuole e anche tutte le possibilità di incontro e di vita sociale, i bambini non si trasmettevano le solite infezioni virali che ogni anno si presentano, pertanto la situazione nel nostro reparto dal punto di vista del “carico di lavoro” era abbastanza controllata. Erano state sospese le ferie a tutto il personale aziendale e pertanto nella nostra unità operativa si registrava un esubero di personale così che a due colleghe è stato chiesto di andare a potenziare reparti Covid in difficoltà assistenziale.

Sentivo costantemente attraverso racconti di colleghi e i bollettini aziendali la gravità della situazione e fra noi infermiere temevamo altri spostamenti in questi reparti. Parlando con alcune colleghe, mamme di bambini piccoli, ho colto dai loro racconti la preoccupazione, lo smarrimento, l’ansia e ho pensato che, tutto sommato, io non ho figli piccoli a casa e così, pur trepidante, ho deciso di dare la mia disponibilità per andare, se fosse stato necessario, in un reparto Covid.

Sono stata assegnata da aprile alla Terapia Intensiva Respiratoria della Pneumologia. Inizialmente la preoccupazione del “fare” diciamo che mi ha assorbito molto. Innanzitutto imparare a conoscere l’ambiente, i colleghi, dove sono tenuti gli strumenti…Le procedure per la vestizione e svestizione con i presidi di protezione individuali. Le varie attività sul paziente con queste barriere che limitano molto i movimenti, la visuale, il tatto e il contatto mi lasciavano molto impacciata e con notevoli difficoltà. L’attività assistenziale rispetto a procedure che spesso non conoscevo o non ricordavo e pertanto ho dovuto rispolverare o imparare ex novo. Nuove procedure burocratiche.

Tutto questo “fare” all’inizio mi ha portato a momenti di ansia e preoccupazione, ma poi, consolidati alcuni processi, l’ansia ha lasciato il posto alla preoccupazione di far star il meglio possibile le persone che erano lì, in quei letti, a volte inconsapevoli, ma spesso coscienti e pertanto mi interpellavano, soprattutto con lo sguardo, chiedendomi silenziosamente sostegno e aiuto. A questo punto la difficoltà nella comunicazione è stata molto forte. Le persone lì ricoverate erano spesso portatori di tracheotomia e pertanto con compromissione alla fonazione: loro tentavano di parlare muovendo la bocca ma la maggior parte delle volte io non capivo e loro ci rimanevano male. Talvolta la difficoltà alla comprensione era per afasia o perché portatori della maschera per la ventilazione assistita che coprendo la bocca impedisce loro di parlare. Inoltre anche io ero impedita alla comunicazione per l’uso della mascherina e per la visiera…Sentivo che mancava molto il contatto, la relazione.

Certo, questi momenti mi hanno segnato profondamente: gli sguardi smarriti delle persone li raccoglievo e ogni giorno li affidavo al Signore perché in quelle circostanze ho sentito nel profondo che il mio aiuto era poca cosa e che siamo tutti mendicanti di aiuto e di salvezza. È maturata più forte di prima la consapevolezza che la scienza e la medicina, pur nel progresso, non possono tutto. L’uomo non è onnipotente.

Devo dire che spesso mi saliva da dentro la preghiera del salmo “alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto?” …e l’aiuto veniva certamente dal Signore perché tante volte mi ritrovavo dopo turni intensi, con una carica interiore che mi stupiva…in quelle circostanze ho davvero sentito la preghiera di tante persone su di me. L’ansia che all’inizio mi accompagnava sempre, ora lasciava il posto alla speranza e alla felicità per quei momenti in cui si registravano progressi e miglioramenti di salute.

Inoltre ho avuto la “grazia” di accompagnare all’uscita centrale un paziente dimesso che ritornava direttamente al suo domicilio. Era venuta la figlia a prenderlo: quale emozione e anche lacrime di commozione! Lui che, nella fase acuta della malattia faticava a tenere la ventilazione e spesso di notte si agitava e gridava per la paura di morire…ora era lì, restituito alla sua famiglia con la voglia di ricucire relazioni che, mi aveva confidato, aveva ora capito quanto valgono.

A questo punto devo dire grazie al Signore perché mi ha fato forza per affrontare i momenti difficili, perché poi ho potuto rallegrarmi per quelli belli. Devo dire grazie a don Stefano che coinvolgendomi a raccontare la mia esperienza mi ha costretta a fissare, a fare mente locare e a rileggere tutta questa esperienza come dono di crescita professionale, umana e spirituale. Grazie a tutti voi che mi avete ascoltata.

Roberta Benatti, infermiera Pediatria ASST Mantova

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