Il direttore del Pronto Soccorso di Pieve di Coriano si racconta
Paola Borzì, 38 anni, è il direttore del Pronto Soccorso di Pieve di Coriano da quasi due anni. Siciliana di origine, è approdata alla guida del reparto dell’emergenza dopo cinque anni di lavoro in Pronto Soccorso: uno a Reggio Emilia e 4 a Mantova. Instancabile, durante l’emergenza Covid, oltre a gestire Pieve di Coriano, ha aiutato i colleghi al Poma.
Il Pronto Soccorso è stato uno dei reparti che ha dovuto gestire in prima linea l’emergenza Covid. I professionisti, già abituati a lavorare in emergenza, si sono trovati a gestire una situazione inaspettata, difficile da sopportare sia fisicamente che psicologicamente. Cosa è cambiato nel tuo lavoro?
Ritrovarsi nel bel mezzo dell’emergenza Covid come responsabile non è stato facile. La mole di lavoro è aumentata esponenzialmente e non solo per quanto riguarda orari e turni. Questo lungo inverno di lockdown mi ha però permesso di conoscere meglio i miei colleghi e molte delle problematiche che ognuno di loro deve affrontare ogni giorno. Ho imparato a guardare oltre e soprattutto ho capito che la collaborazione è l’arma più preziosa che abbiamo.
Il lavoro di squadra è stato fondamentale.
Senza dubbio. È indispensabile perché gli ingranaggi funzionino come dovrebbero. La determinazione e la forza di volontà possono fare davvero la differenza.
Proprio per aiutare i colleghi, nel periodo di massimo afflusso, da Pieve di Coriano sei tornata a Mantova. Come hai vissuto quest’esperienza?
Sono tornata al Pronto Soccorso di Mantova per coprire qualche turno e per dare una mano. Ho vissuto momenti davvero tristi, per non dire strazianti. Ma li condividevo con tutti i miei colleghi. Tristezza, rabbia, a tratti rassegnazione, erano i nostri compagni di lavoro. Ma nonostante tutto, non ho mai visto nessuno dei sanitari arrendersi.
C’è un episodio che ti ha colpito particolarmente?
Ricordo ancora un paziente in osservazione breve. Era uno dei tanti. Sembrava destinato al peggio. Tutti noi, ostinatamente, lo abbiamo trattato con tutti i mezzi a nostra disposizione, lo abbiamo ventilato e pronato, ma nulla sembrava davvero efficace. Il giorno dopo era ancora lì. Non era né migliorato, né peggiorato, ma questo ci sembrava già un gran risultato. Il terzo giorno, quando sono arrivata al lavoro, era seduto sul letto, senza la maschera. Mi ha guardato e mi ha saluto: “Buongiorno! Sto molto meglio!”. Non mi sembrava vero! Ero felice come una bambina! Rideva e scherzava come se non fosse successo nulla e ha dato forza agli altri pazienti dei letti a fianco. Che tempra…
L’emergenza Covid, sicuramente unica, non è stata la tua unica esperienza a contatto con l’urgenza che coinvolge molte persone. Sei stata anche a Lampedusa.
Sì, ho lavorato a Lampedusa durante gli anni della mia specialità in chirurgia. Atterrati in aeroporto, entravamo all’interno del centro e, da quel momento, il medico non poteva uscirne per un’intera settimana, ad eccezione di quando doveva andare al molo per accogliere i migranti sbarcati. Sembrava di vivere in una bolla, una sorta di realtà parallela: non esistevano più le abitudini, non c’erano orari da rispettare e si passava dalla spensieratezza alla noia alla frenesia per le mille cose da fare.
Quest’esperienza è stata utile per la gestione del Covid?
Sicuramente sì. In un certo senso le due esperienze sono paragonabili: emozioni intense (spesso contrastanti), notti insonni, stanchezza estrema alternata alla gioia per cose apparentemente di poco conto. Sull’isola sicula ho imparato a gestire il tempo e a capire cos’è davvero urgente. Sempre a Lampedusa ho imparato a comunicare con altri mezzi che non fossero le parole: i migranti parlavano lingue che non conoscevo. Analogamente i pazienti Covid spesso non riuscivano a parlare a causa della maschera che permetteva loro di respirare, ma non di esprimersi a parole. Ho imparato a comprendere i gesti, i sussurri, gli sguardi e anche a decifrare quello che gesti e sguardi a volte non dicono, ma che fanno davvero la differenza.
Cosa ti hanno lasciato queste esperienze da un punto di vista umano e professionale?
Ogni persona ha una sua storia, ogni storia lascia un segno e l’insieme di quei segni dipinge un quadro unico e irriproducibili, impossibili da ingabbiare in un algoritmo.
Un’ultima domanda. Una giovane donna primario. Quali sono le caratteristiche che oggi servono a una donna per fare carriera?
Sono molto orgogliosa dei traguardi che ho raggiunto. Ma non saprei definire le caratteristiche che servono a una donna per fare carriera. Credo solo fortemente che amare questo lavoro sia l’ingrediente fondamentale per ottenere dei risultati. E per amare il mio lavoro servono scienza e coscienza, ma anche passione e quel pizzico di follia che aiuta a scovare il lato buono anche nelle situazioni migliori.
Maddalena Bellei è una graphic designer e lavora negli uffici della Comunicazione di ASST. Ha capito lo scopo della sua vita grazie ad Alessandro D’Avenia: “Strappare la bellezza al mondo ovunque essa sia e regalarla a chi ti sta accanto: per questo sono al mondo”. Ama la fotografia, il cinema, il mare e Nicolò al quale deve tutto.