Don Stefano: “La premura e la delicatezza del personale sanitario. Nessuno è morto da solo”

Il cappellano nei reparti Covid: “Così ho potuto consolare pazienti e operatori”

Svolgo da tre anni il mio servizio sacerdotale come cappellano all’ospedale di Mantova. Pensavo di aver ormai preso dimestichezza con questo ambiente, invece la novità e l’imprevedibilità di questo virus hanno scombussolato buona parte delle abitudini e delle modalità relazionali che avevo consolidato nel corso di questi anni.

Prima di tutto sono cambiate le modalità di incontro con le persone qui ricoverate. La raccomandazione di ridurre al minimo i tempi di permanenza nelle stanze dei malati e la necessaria distanza di sicurezza da tenere nei confronti di chi poteva essere causa di contagio (con la conseguente impossibilità di una “terapeutica” stretta di mano), mi hanno costretto a limitare la comunicazione al solo contatto visivo, il più delle volte appannato e oscurato da mascherine e respiratori.

Ho scoperto però quante cose si possono comunicare con il solo sguardo, senza bisogno di parole. Nella maggior parte dei casi, sul viso dei degenti, ho colto sguardi di domanda, di timore (e qualche volta di terrore) di fronte alle imprevedibili conseguenze di questa malattia. Spero che anche i malati abbiano potuto cogliere nel mio sguardo una “silenziosa presenza consolatrice“.

In altri casi, quando invece era possibile scambiare qualche parola con i malati, quasi mai il discorso si è ridotto a superficiali considerazioni. Il silenzio, la solitudine, la sofferenza hanno sicuramente favorito in loro una riflessione su alcuni aspetti della vita, solitamente lasciati in secondo piano. Non di rado si è creata l’occasione per dare una semplice e convinta testimonianza sul tema della morte e del Paradiso che ci aspetta.

Anche con il personale sanitario si è instaurata una buona sintonia e cooperazione. La grande croce, che disegnavo ogni giorno sul camice, mi ha permesso di essere riconoscibile nel mio particolare compito di “medico delle anime“. Spesso erano gli stessi medici e infermieri a chiedere una parola di conforto e di consolazione. Se è vero che questo virus ha fatto grandi danni a livello fisico-organico, è altrettanto vero che ha creato un grande senso di unione e fraternità in tutti coloro che hanno lavorato in questi reparti. E anche tra i malati e i gli operatori sanitari, “uniti contro il comune nemico”,  si è creato un senso di fiducia e di complicità, difficilmente sperimentabile in altre occasioni.

Non sono certo mancati i momenti tristi. Qualcuno non è riuscito a superare il momento di crisi e ci ha lasciati. Una delle cose che più mi porterò nel cuore, come ricordo di questi mesi “in prima linea”, è la premura, la vicinanza, la delicatezza che ho visto negli occhi e nell’agire dei vari operatori sanitari (medici, infermieri, oss, personale delle pulizie) soprattutto nei confronti dei malati più gravi e in fin di vita. Ai familiari delle persone decedute ho potuto testimoniare che, contrariamente a quanto si diceva e si scriveva con insistenza in quei giorni, nei reparti Covid nessuno è morto “solo come un cane”.

Mi sento quindi di ringraziare il direttore generale Raffaello Stradoni e la Direzione dell’ospedale per avermi concesso la possibilità di prestare il mio servizio in questi reparti, luoghi di grande sofferenza ma soprattutto, luoghi di carità e di grande umanità.

don Stefano Menegollo

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