Il tempo del silenzio: nasce il linguaggio degli sguardi


Quando le parole passano in secondo piano e gli occhi diventano un ponte

Non vedo l’ora di abbatterti”, scrivono sulla parete in cartongesso che separa l’area sporca da quella pulita del Pronto Soccorso di Mantova. Di qui i pazienti Covid, di là gli altri. Pochi altri, perché l’ombra del Coronavirus si è allungata ovunque. Si è presa tutto. C’è chi lo ha chiamato muro del pianto. È un muro che protegge, che argina anche le lacrime, il fiume in piena dei pensieri del personale del reparto di prima linea. I malati arrivano qui con i sintomi del contagio. Tanti, troppi. Sono ondate che lasciano senza parole.  Si fermano sulle bocche di medici e infermieri, le parole. Però balzano nell’inchiostro impresso su quella parete divisoria: “Chi molla è perduto”, “Ce la faremo”, “Più di così non so”, “Ora ti rendi conto di quante occasioni si perdano pensando di avere tanto tempo davanti”. Le parole non dette si leggono qui. Si guardano, non si ascoltano. Sembra che l’epidemia abbia imposto un linguaggio nuovo.

Questo è il tempo del silenzio, interrotto solo dalle sirene delle ambulanze, dallo squillo di un telefonino, dai passi affrettati del personale che si affanna per mettere in salvo chi può. A parlare sono gli sguardi. Gli occhi che brillano sempre, addolorati o fiduciosi, sopra le mascherine. Quelli dei pazienti che cercano aria e speranza. Quelli degli operatori che accorrono per prendersene cura. Sembra che la voce sia scivolata lì, dentro le pupille calde di uomini e donne. Tutti uguali, malati, sani, dentro o fuori dai letti, nelle stanze dell’ospedale, nelle case, per strada. Non ci sono più confini. L’umanità ferita e incredula di fronte a una guerra contro un nemico invisibile e multiforme è un corpo e un’anima sola.

Gli sguardi sono un ponte, uno specchio, un’ancora. Dietro gli occhiali di protezione di chi indossa la divisa curano e rassicurano. Sotto un casco respiratorio si impauriscono e chiedono conforto. Affacciati al display di un tablet che fa da finestra per rivedere magari l’ultima volta i propri cari si allagano. Si incantano entrando gli uni negli altri, sotto le ciglia di chi è costretto a fermare le lancette degli amori lasciati in sospeso. Restano sulla soglia, chiedono il permesso di farsi strada oppure irrompono senza mezzi termini. Timidi, spavaldi, rispettosi, indiscreti, tristi, lieti. A che servono le parole? Bastano gli occhi. Due occhi, quattro occhi, migliaia di occhi. Dicono tutto loro, gli occhi: lasciamoli fare. Qualcuno lo sapeva, prima che il Covid-19 rubasse la scena, che delle parole possiamo fare a meno?

Elena Miglioli è il direttore del periodico Mantova Salute, responsabile dell’Area Ufficio Stampa, Comunicazione e Urp ASST di Mantova. Giornalista professionista, scrittrice, poetessa. Ama tutte le forme d’arte, ma mette la musica (classica) al primo posto.

3 Commenti
  1. Toccante… per qualche istante mi sono proiettata li , tra le corsie dell ospedale , guardando occhi ! Complimenti ELENA…. grazie. Cinzia

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