Mantova 1630. Epidemia di peste. Misure per il contenimento del contagio.

Nel settembre 1629 le truppe imperiali impegnate nella guerra di successione del Monferrato giunsero in territorio mantovano e cinsero d’assedio la città. Le milizie lanzichenecche, nel loro percorso distruttivo dal nord al sud della Lombardia, oltre a seminare violenze e devastazioni avevano portato con sé anche il contagio della peste. Il primo caso a Mantova si ebbe il 2 novembre 1629. L’epidemia si diffuse nei mesi successivi e da gennaio a giugno ogni mese si registrarono prima 1.000, poi 2.000 e infine 4.000 morti al mese.

Per ben sei mesi le autorità di governo negarono ostinatamente, con la complicità dei medici, l’esistenza di una epidemia di peste finché, tra aprile e maggio il duca Carlo di Nevers ruppe gli indugi: aprì un lazzaretto fuori S.Giorgio, vietò le processioni penitenziali che si andavano facendo in città e, il 26 maggio, stabilì una “universale quarantena”, con l’obbligo per tutti i cittadini di rinchiudersi dentro le proprie case per un periodo di 22 giorni. Si concedevano alla popolazione sei giorni di tempo per procurarsi il necessario per sopravvivere senza uscire di casa. I poveri che non avevano denaro avrebbero dovuto procurarsi un attrezzo da lavoro e presentarsi alla Congregazione di Sanità, dove a ciascuno sarebbe stato assegnato un “pass” e un luogo dove prestare la propria opera, per rinforzare i forti intorno alla città oppure per falciare il fieno nei campi, raccogliere legna o altre faccende. Anche le donne potevano iscriversi a tali liste e anch’esse sarebbero state impiegate in lavori di pubblica utilità. Tutti avrebbero ricevuto una razione di pane giornaliera sul luogo di lavoro e una mercede a fine giornata per procurare il cibo alle famiglie.

Gli ebrei, i frati, le monache e i soldati avrebbero dovuto rimanere rinchiusi nel ghetto, nei conventi  e nelle caserme. Il duca avrebbe compilato una lista nominativa di tutti i ministri, gli ufficiali di governo e i servitori di corte autorizzati a recarsi sul posto di lavoro.

Rivenditori di generi alimentari e ortolani avrebbero percorso le vie della città per vendere i loro prodotti a chi stava chiuso dentro le case “ricevendo il denaro nei modi che per sicurezza saranno indicati”. Anche confessori, medici, barbieri e notai avrebbero percorso le strade della città, dotati di una trombetta per annunciarsi a coloro che avessero avuto bisogno dei loro servizi. Le levatrici erano libere di andare ovunque fosse richiesta la loro opera, in qualsiasi momento. Il vescovo, per parte sua, aveva ordinato di dire le messe agli incroci delle vie affinchè “ogn’uno, al suono di campana, possa sentirla dalle finestre”. 

Secondo i cronisti contemporanei dopo la quarantena la pestilenza sarebbe diminuita d’intensità: le “bogne” e le “vescichette pestifere” sarebbero state meno maligne e un certo numero di malati,  curati e soccorsi adeguatamente, riuscivano a guarire (forse un terzo o anche la metà degli infetti).

Dopo la conquista e il saccheggio del 18-20 luglio 1630 i 60.000 abitanti della città si sarebbero ridotti a non più di 8.000, mentre l’intera provincia passò da 190.000 abitanti a 130.000. 

Gilberto Roccabianca è uno storico locale. È stato dirigente negli ospedali di Verona e di Mantova. Appassionato di storia della sanità mantovana, pubblica sul nostro magazine dal 2012.

1 Commento
  1. Grazie per averci regalato questo breve racconto per non dimenticare, per ricordare sempre da dove veniamo e la storia dell’uomo e degli eventi che ciclicamente ritornano a ricordarci che siamo di passaggio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato.

Archivi
Categorie
Iscriviti alla newsletter