Nell’appartamento della grotta, a Palazzo Te, scene di pratiche mediche, rappresentate dall’artista come un momento della vita dell’uomo
Gli affreschi ammirabili nella loggia dell’Appartamento della Grotta in palazzo Te, dipinti da allievi di Giulio Romano su disegni del maestro, rappresentano un ciclo pittorico interpretabile come allegoria della vita umana. Tra questi ve ne sono due di interesse storico medico, l’uno raffigurante una scena di parto, “…l’altro dappresso..”, per dirla con Leopoldo Camillo Volta, “…che bizzarramente figura la stanza di un ammalato, al quale vengono applicate le coppe, come anche fece noto il Vasari”. Quest’ultimo, infatti, lo descrive come quello “di un medico ch’appicca le coppette sopra le spalle a una femina”.
Pasquale Coddè e Carlo D’arco fornirono a mio parere definizioni storicamente più corrette identificando entrambi in un chirurgo l’uomo che applica le coppette: al tempo di Giulio Romano, come d’altronde nei due secoli successivi, un medico non avrebbe mai usato le mani nell’esercizio di una professione ritenuta esclusivamente intellettuale. Circa l’affresco altri hanno scritto in tempi recenti o per identificarne l’autore o per interpretarlo parzialmente, essendo attirati dalla pratica della coppettazione trascurando la visione d’insieme e il significato dell’opera.
Vorrei proporre una mia ipotesi basata sull’analisi dei personaggi raffigurati. La scena si svolge nella stanza di un malato su una natica del quale un cerusico-chirurgo applica una coppetta; sulla parte superiore del dorso vi sono apposte altre due coppe mentre una donna con il palmo della mano cosparge forse un unguento. Alla destra il cerusico è assistito da due donne una delle quali regge una candela, utile per incrementare l’effetto ventosa delle coppette.
Una quarta donna piangente ai piedi del letto attesta la gravità del momento. Poco più in là è raffigurato un medico che, posizionato di spalle rispetto al malato, sembra intento a osservare, o meglio a intingere il dito per assaggiare le urine contenute in una matula; un uomo maturo sembra sollecitare il medico a volgere lo sguardo verso il paziente. Di fronte al medico la donna con il dito indice leggermente ripiegato in avanti e rivolto verso l’alto (forse lei stessa ritratta nell’atto di assaggiare l’urina del malato) potrebbe rappresentare Panacea, figlia di Asclepio (Esculapio per i latini), Dea e personificazione della universale e onnipotente guarigione di ogni sorta di malattie mediante le piante.
La verosimiglianza di questa mia ipotesi è confermata dalla presenza, ai piedi di Panacea, di una donna intenta a pestare nel mortaio probabilmente le erbe utili per curare il paziente. L’affresco è stato riprodotto più volte nei secoli sotto forma di incisioni da parte di artisti contemporanei di Giulio Romano o posteriori. L’incisione, attribuita a Giorgio Ghisi, Primaticcio – in qualità di pittore – tra il 1537 e il 1550. Ancor più fedele all’originale giuliesco è l’incisione di Angelo Guelmi (1793-1834) su disegno di Agostino Comerio (1784- 1834), intitolata “la Malattia”.
È forse questa la denominazione che più si avvicina alle intenzioni del maestro, volendo egli raffigurare la malattia come momento della vita dell’uomo. Attorno alla malattia troviamo le tre figure professionali che a quel tempo si potevano cimentare per curarla: il chirurgo-cerusico che applica le coppette e le pietre, il medico e il farmacista impersonato dalla dea Panacea che interviene con preparati d’erbe cioè con i mezzi forniti dalla natura.
La coppettazione è un’antica pratica utilizzata per curare svariate malattie. Pur esistendo varianti di questa terapia tutte si basano sul principio di creare un effetto ventosa sulla cute mediante l’applicazione di coppette di vetro, di ceramica, oggigiorno di plastica. Sulla pelle si possono applicare unguenti od oli per far scorrere agevolmente le coppette. La matula è un recipiente utilizzato per il trasporto e l’osservazione dell’urina. Quest’ultima, nota come uroscopia, dal Medioevo fino all’epoca scientifica, era atto diagnostico fondamentale fino al punto che non si poteva immaginare un medico se non intento a quel particolare esame completato dalla valutazione gustativa delle urine. L’unica raffigurazione di Panacea a me nota è il disegno di Hendrick Goltzius “Panacea, daughter of Asculapius”, del 1576, conservato al Tylers Museum di Haarlem. In esso la dea è intenta ad osservare l’urina contenuta in una matula.
Tratto dal periodico La Reggia, dicembre 2019
Di Andrea Zanca, direttore struttura Dermatologia Asst Mantova e membro dell’Accademia Virgiliana