Quando i bambini nascevano a casa. Di madre in figlia: due generazioni di ostetriche

Gianna, 94 anni, ha iniziato la sua professione nel 1948  e ha passato il testimone a Chiara, che ricorda: “Ho assisto al mio primo parto a 8 mesi, mamma mi portò con sé nel passeggino”

La testolina è uscita, ma le spalle sono rimaste dentro. Il medico varca la soglia della stanza, guarda la scena frenetica e impallidisce all’istante: “Portiamola in ospedale!”. L’ostetrica, con piglio da generale, alza la voce: “Ci aiuti a farla scendere dal letto, ormai non resta più tempo!”. E insieme al marito della partoriente, con le maniche rimboccate, porta a termine la sua missione quotidiana. I due riescono  a sistemare la donna carponi. Di lì a poco, grazie alla nuova posizione, nasce Carlo. Un bimbo rubicondo di oltre 5 chili.

Storia dell’ennesimo miracolo. Che una spinta dopo l’altra genera nuova vita. Di miracoli Gianna, 94 anni e una mente lucida come le gote di un neonato appena lavato e asciugato, inizia a compierne nel 1948. Quando la farmacista del paese di campagna dove cresce con la nonna e il fratellino le suggerisce di intraprendere la professione. Avendo visto in lei le stesse caratteristiche della sorella.

Non è stato facile – racconta la regina delle cicogne – pur essendo io un tipetto vivace e intraprendente. I miei familiari fecero di tutto perché riuscissi a concludere gli studi e a conseguire il diploma di licenza complementare, nonostante gli anni della guerra. Frequentai il corso all’Università di Modena che offriva la possibilità del convitto interno per le studentesse meno abbienti”.

Nel 1949, all’età di 22 anni, l’iscrizione al Collegio di Mantova: “Il primo parto a domicilio è stato quello di una zia. Oltre all’emozione avevo moltissima paura. Nacque Franco, mio cugino. Sano come un pesce. Mi sembrava una grazia, vista anche la mia inesperienza”.

La gravidanza era considerata da tutti un evento fisiologico. Gli strumenti diagnostici limitati. Quando ci si avvicinava al termine, in caso di gonfiore alle gambe, pressione alta o mal di testa, si eseguiva il test dell’albumina faidate. La donna consegnava all’ostetrica un campione di urina a cui si aggiungevano alcune gocce di acido acetico. La provetta di vetro veniva poi scaldata con le fiamme: l’esame risultava positivo se comparivano fiocchi bianchi simili a neve. Era un segnale d’allarme, che richiedeva l’intervento del medico e l’ospedalizzazione : “Quando iniziava il travaglio venivo chiamata e mi trattenevo con la futura mamma fino al momento del parto. Era presente tutta la famiglia. Se possibile, venivano allontanati i più piccoli. Nelle case povere, d’inverno si metteva al centro della stanza da letto un braciere acceso per riscaldare l’ambiente. Quindi si bolliva dell’acqua per lavare le mani e immergere gli strumenti dopo il flambaggio con l’alcool. Chiedevo di avere a disposizione biancheria pulita e asciugamani freschi di bucato”.

Il neonato veniva lavato e vestito e, dopo le profilassi di legge, lasciato alla mamma per l’allattamento. Gianna si prendeva cura di loro nei giorni successivi: “Ricordo un caso di infezione puerperale che mi fece preoccupare tantissimo, soprattutto perché ero sicura di avere operato disinfettando scrupolosamente mani e strumenti. Comparvero febbre altissima e brividi. Scoprii , dopo avere indagato, che la suocera teneva i pannolini della puerpera nel comodino assieme alle scarpe. Arrivai in ospedale con una macchina a noleggio e rimasi con il marito piangendo tutte le mie lacrime. Nella notte il medico uscì per tranquillizzarci e mi rivolse parole confortanti: signorina, si calmi, la situazione sta migliorando, la donna è salva, il merito è suo”.

Chiara eredita vocazione ed entusiasmo per un lavoro che regala innumerevoli soddisfazioni. Riceve una doppia formazione: quella della mamma, quando i bambini nascevano sul letto di casa. E al Carlo Poma, dove opera a partire dal 1978, prima come infermiera in Chirurgia Generale e quindi come ostetrica, dopo avere conseguito il relativo titolo.

Racconta che la madre la coinvolgeva fin da bambina, trasmettendole la sua arte. Prima a mo’ di gioco e poi, dall’età di 11-12 anni, in forma di  vera e propria assistenza. Soprattutto dopo il parto: “Un’estate feci pratica con le punture, usando le patate, di consistenza simile al muscolo. Così, oltre ai bagnetti, alla medicazione dell’ombelico, all’aiuto nelle prime fasi dell’attaccamento al seno, al test dell’albumina, trattavo al di là delle gravidanze anche molti malati che avevano bisogno di iniezioni. Mi dicevano, forse per incoraggiarmi, che avevo la mano più delicata di mia madre. Vidi il mio primo parto dal passeggino, avevo 8 mesi. Mamma non sapeva a chi affidarmi, così mi portò con sé”.

Di generazione in generazione, la famiglia assiste alla trasformazione di una professione. “L’avvento del parto in ospedale fu un momento traumatico per mia madre. Io stessa ho dovuto nasconderle inizialmente di avere intrapreso questa strada, di cui per altro sono infinitamente grata e fiera, perché mi ha insegnato tanto, anche a livello personale. Lei si sentiva esautorata. Ebbe un’occasione di riscatto quando dall’ospedale di Bozzolo arrivò la proposta di fare parte dell’équipe del punto nascita. Mio padre si oppose, perché c’erano i turni e io ero ancora ragazzina”.

Il destino ha voluto che Gianna rimanesse ancorata al suo ruolo di ostetrica d’altri tempi. Testimone di un’epoca scomparsa. Ma alla quale, per tanti versi, si vorrebbe fare ritorno.

Elena Miglioli è il direttore del periodico Mantova Salute, responsabile dell’Area Ufficio Stampa, Comunicazione e Urp ASST di Mantova. Giornalista professionista, scrittrice, poetessa. Ama tutte le forme d’arte, ma mette la musica (classica) al primo posto.

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