L’esperienza Covid-19 ha cambiato ognuno di noi: chi si è trovato in pochi giorni ad essere chiuso in casa lontano da affetti e abitudini. Chi non ha mai smesso di lavorare per garantire a tutti l’essenziale e chi si è trovato “eroe” al fronte, davanti ad un nemico sconosciuto con armi inadeguate.
Pensavamo fosse una cosa lontana, la Cina, ma poi Roma, Codogno, le zone rosse, fra piccoli focolai e grandi incendi. In pochi giorni il volto dell’ospedale dove lavori si trasforma, reparto dopo reparto, bollettino dopo bollettino. Finché arriva il giorno in cui timbri e sai che quel giorno troverai il tuo reparto diverso, nuovo.
Hai letto le testimonianze di chi col Covid ci lotta già ma provarlo sulla propria pelle è diverso. Le porte delle stanze di degenza chiuse sono il primo cambiamento che noti. Questo virus ti isola fisicamente ed empaticamente, il contatto con il paziente deve essere ridotto allo stretto indispensabile. Entri nelle stanze dove il principale mezzo di comunicazione sono gli occhi fra il rumore degli alti flussi di ossigeno e la mascherina che limita la tua voce.
Impari a comunicare con niente ma in modo profondo. Stringi le mani di persone che hanno paura perché improvvisamente respirare è diventato difficile e doloroso e talvolta la loro paura diventa anche la tua. Inizi a pensare di non riuscire a fare abbastanza quando in poche ora le condizioni peggiorano e loro lasciano questa vita, soli, lontano da tutti, senza poter avere un ultimo saluto dai loro cari.
Le lacrime dei primi giorni di Covid non si contano. Lacrime di stanchezza, di inadeguatezza, lacrime di paura. Per i pazienti più gravi e soli inizi a fare videochiamate con i parenti, contatti che spesso sono un ultimo saluto. “Salutami tutti”, dice una mamma alla figlia che gli chiede solo di resistere; morirà 24 ore dopo spegnendosi serena nel sonno. Pochi giorni e ricevi un semplice grazie per quell’ultimo saluto. Prendi forza dai grazie dei parenti, in molti casi tu sei la loro ultima carezza, il loro ultimo sorriso, il loro ultimo grido d’aiuto. Ti porti a casa il peso di tutto quello che non hai potuto fare, piangi.
Le ore di sonno si riducono a poche e tribolate. La testa non si ferma mai. Ti abitui giorno dopo giorno al carico di lavoro (fisico ed emotivo), alla vestizione e svestizione, alla doccia prima di tornare a casa al meticoloso controllo di ogni movimento per non rischiare di infettare ed infettarti. Il tuo gruppo di lavoro si allarga, nuovi medici e nuovi colleghi, una grande squadra. Si creano legami in poco tempo. Si fa squadra e si cerca di vivere insieme le emozioni che si creano giorno dopo giorno fra lacrime e risate.
Quando dopo circa 50 giorni il tuo reparto torna ad essere “pulito”, la battaglia non è ancora finita ma le armi che hai sviluppato ora sono adeguate. Rivedi l’orizzonte, torni a fare il tuo lavoro con l’empatia che lo contraddistingue. Niente e nessuno potranno cancellare quei giorni, quelle emozioni, solo a ripensarci la voce si spezza e la certezza vacilla. La domanda che tutti ti fanno spesso è “hai paura?” e la risposta non può che essere la stessa: “Ho sempre paura quando sono al lavoro, in questo periodo la paura più grande era di non poter fare abbastanza”. La gente ti chiama ancora “eroe” ma tu sai che di eroico non ha fatto altro che svolgere il lavoro che hai scelto, giorno dopo giorno, ostacolo dopo ostacolo, emozione dopo emozione.
Elena Bernardi
Infermiere Area Nefromedica