Carenza di vitamina D: quando manca il nutrimento per le ossa

È fondamentale per l’assorbimento del calcio, in gran parte si riceve dalla luce. Ma le creme solari e l’inquinamento ne riducono l’assorbimento

La vitamina D è un ormone fondamentale per l’assorbimento del calcio nell’intestino. Ha un effetto favorevole sul metabolismo scheletrico. Viene anche chiamata ‘vitamina del sole’. Gherardo Mazziotti, responsabile della struttura Attività di Endocrinologia dell’ASST di Mantova, approfondisce l’argomento, fornendo anche precisazioni su alcuni studi che sembrano  ridimensionarne l’importanza.

 

Come si manifesta la carenza di vitamina D e quali conseguenze comporta?
La vitamina D consente di assimilare il calcio, nutrimento fondamentale per la struttura scheletrica. La sua mancanza può indurre fragilità ossea, che nei bambini viene definita rachitismo e negli adulti osteomalacia. Le manifestazioni di questo stato sono le fratture, anche in assenza di traumi significativi. Non esistono sintomi particolari che ci possano mettere in allarme su uno stato di ipovitaminosi, anche se nelle forme severe di carenza possono comparire dolori ossei ed ipostenia muscolare. Esistono invece condizioni cliniche che espongono a questo rischio e alle relative conseguenze. 

Come si arriva, quindi, alla diagnosi di ipovitaminosi D?
La diagnosi di ipovitaminosi D si avvale del dosaggio della 25idrossi-vitamina D, precursore della vitamina D attiva, nel sangue circolante. Sebbene l’ipovitaminosi D sia una condizione molto frequente nella popolazione generale, il dosaggio va eseguito in maniera mirata in quei soggetti che per età o per patologie croniche, sono a rischio di ipovitaminosi D e di fragilità scheletrica. In questi casi, la diagnosi di una insufficienza o carenza vitaminica può avere delle reali implicazioni terapeutiche che si traducono in un miglioramento della salute scheletrica. 

Quali sono le fonti principali di assorbimento?
La sintesi di vitamina D3 avviene nella cute in risposta allo stimolo della luce solare. Si tratta della fonte privilegiata di approvvigionamento, anche se le creme solari riducono l’assorbimento e quindi la produzione da parte dell’organismo. Nei soggetti anziani, il sistema enzimatico preposto alla sintesi di vitamina D3 è meno funzionate. Allo stesso modo, le popolazioni di colore hanno meno disponibilità di vitamina D. Anche la polluzione e lo stile di vita moderno, che ci porta a trascorrere molte ore in ambienti chiusi, non aiutano. La vitamina D2 invece deriva dalla dieta, anche se solo pochi alimenti – ad esempio salmone o l’olio di fegato di merluzzo – contengono questo elemento in quantità significative. Sia la vitamina D2 che la D3, subiscono due importanti trasformazioni enzimatiche, la prima nel fegato e la seconda nel rene.

Italia, Paese del sole. Abbiamo dunque un vantaggio rispetto ad altri territori?
In realtà esiste un paradosso: i popoli del Nord hanno più vitamina D degli italiani. Per quale motivo? Una scelta socio-sanitaria, quella di fortificare gli alimenti con l’integrazione di vitamina D, cosa che avviene con i latticini. Ciò che si fa, per arginare altre problematiche, con il sale iodato. Per rendere la pratica di fortificazione alimentare più efficiente, oggi si sta pensando biofortificazione sui prodotti che servono per alimentare gli animali, come ad esempio il frumento. Ma la fortificazione non è sufficiente. Bisogna ricorrere al trattamento farmacologico. Studi clinici hanno dimostrato che con la vitamina D quando associata ad un normale introito di calcio è possibile ridurre del 10-12 per cento il rischio di frattura di femore nei soggetti anziani. Inoltre, nei pazienti con osteoporosi per i quali è necessario utilizzare farmaci anti-osteoporotici, la supplementazione con vitamina D è conditio sine qua per garantire l’efficacia di tali farmaci.

Esistono studi che mettono in discussione l’utilità della supplementazione con vitamina D. Che valore hanno?
Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi studi sull’argomento. I risultati però sono stati talvolta deludenti. Alcuni elementi possono giustificare questi risultati negativi perché si tratta di metanalisi che accorpano trials clinici molto eterogenei, analizzando ad esempio popolazioni e fasce d’età diverse. In molti studi inoltre la vitamina D era stata somministrata a soggetti nei quali non era stata preventivamente diagnosticata una ipovitaminosi o era in dose insufficiente. Infine, in altri studi, la vitamina D è stata utilizzata senza la supplementazione di calcio. Oggi sappiamo che la somministrazione combinata dei due integratori è invece cruciale, a meno che il calcio non venga già introdotto tramite la dieta.

Vuoi approfondire l’argomento? Fai una domanda a Gherardo Mazziotti nella rubrica Chiedi all’esperto.

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