Parole costruttive e molto sentite alla giornata inaugurale delle attività didattiche dei corsi di studio. Un’educatrice in formazione: “Dobbiamo essere capaci di lottare per qualcosa che riteniamo giusto e non semplicemente per la garanzia del successo”
Riportiamo di seguito il discorso tenuto da Alice Cappellari, studentessa del 3° anno del corso di studio in Educazione Professionale, durante la cerimonia di apertura delle attività didattiche dell’Università di Brescia, sede di Mantova, che si è svolta il 26 marzo al Mamu-Mantova Multicentre.
Per questo mio intervento ho ricercato una parola che potesse convergere con tutte le professioni oggi qui presenti. La parola scelta è trasformazione. Il “trasformarsi” è un processo che tocca ciascuno di noi e, così come l’evoluzione, è inarrestabile: richiede di fluire, di prendere forma e di compiersi in un continuo cambiamento. Credo che questo sia un atteggiamento richiesto a tutti noi: la capacità di evolverci in risposta ai bisogni della società. Il contesto in cui operiamo infatti modella il nostro agire e indica lo sguardo alle nostre azioni.
Premetto che, nel corso di questo intervento, adotterò la prospettiva e le lenti dell’educatore professionale, un ruolo che ritengo giustificato dal mio arricchente percorso di formazione. Non è un caso che il mio corso di laurea abbia sede nel quartiere di Lunetta; esso stesso può essere definito come un progetto sociale di riqualificazione urbana per rivalorizzare le appartenenze delle persone. Per ruolo professionale l’educatore deve conoscere il contesto sociale e territoriale in cui opera. La collocazione nel quartiere e le azioni realizzate in rapporto con il territorio promuovono inevitabilmente lo studio e la ricerca; gli stessi progetti territoriali sono affrontati in modo integrato con la didattica professionalizzante.
Proprio l’attivazione del percorso universitario sulla base di protocolli d’intesa tra Università degli Studi di Brescia, Asst Mantova e Fondazione ENAIP Lombardia, ha consolidato con un patto collaborativo l’intuizione lungimirante del Comune di Mantova e Fondazione UniverMantova. La collaborazione tra istituzioni ha consentito di garantire le condizioni per l’offerta formativa coerente al core del profilo, dalla sua nascita costitutiva in ambito socio-sanitario. Il quartiere sorto nella cintura extraurbana è caratterizzato da criticità – emergenti – che hanno sollecitato il desiderio di operare verso il cambiamento attraverso elementi di risorsa e attivazione di laboratori sociali e culturali. Dunque, la semantica degli spazi aiuta inevitabilmente a nutrire relazioni che si sviluppano in connessioni tra parole, dimensioni, spazi, luoghi e persone.
Ritornando al concetto di “rivalorizzazione delle appartenenze”, il meccanismo del dare valore richiede fondamentalmente due azioni: il riconoscere e il trasformare, che preclude anch’esso un riconoscimento. Il riconoscimento è l’atto del prestare attenzione e nasce dal desiderio di “comprendere” la realtà, un interesse che la ragione ha per conoscere il mondo. La stessa parola “cura” ha un legame linguistico con la parola “curiosità”, “il guardare”, “l’osservare”; dobbiamo dunque essere curiosi di chi abbiamo davanti. Il riconoscimento necessita quindi, in un certo senso, del nostro stupore e della nostra tensione verso la meraviglia. La trasformazione ha anch’essa una forte pregnanza educativa. Il valore di ciò che ci circonda e la dignità di ciascuna persona umana sono alla base della vita comunitaria. Nel momento in cui questi aspetti vacillano, è dunque richiesto un processo di manutenzione, che sento di poter affiancare al concetto di riabilitazione.
Nel decreto ministeriale che definisce la figura dell’educatore professionale, emergono parole come “riabilitazione”, “progetto”, “multidisciplinarietà”, “partecipazione”, “recupero”, “collettività”, aspetti che oltre ad avere una propria carica emotiva, fanno emergere un imprinting oggettivo rispetto a ciò che rende il nostro lavoro dimostrabile e di qualità. Questo ci permette di vedere l’altro immerso nel proprio contesto di vita globale e non esclusivamente all’interno di un’istituzione a cui fa affidamento. Essendo la trasformazione un processo permanente, questa richiede una tessitura continua di contatti umani. Il “metodo”, infatti, così come ci insegna la fenomenologia, è indicato dalla persona stessa e non risulta mai imposto dall’educatore, cui compito è quello di accompagnare l’altro nel percorso di consapevolezza e di comprensione di sé, essendo la persona stessa detentrice della propria saggezza. La relazione educativa può essere dunque intesa come una “comunione continua tra la conoscenza didattica e tecnica e l’umanità dello sguardo verso le persone”.
All’educatore professionale sono richieste la serenità e la formazione di chi, pur affrontando l’inquietudine dell’incontro con l’altro, che non può essere ridotto a teorie preconfezionate, non perde la speranza. Anzi, sente di essere sempre un eterno principiante, avendo fiducia nella propria capacità di imparare continuamente, secondo il principio della riflessività e dell’indagine speculativa. Per questo, si approccia il paziente con un atteggiamento di umiltà, come se fosse anche lui un allievo: un’etica della cura che, citando Sant’Agostino, porta a concepire sé stessi come esseri umani legati ad altri da esigenze e interessi comuni e dalla necessità di reciproco riconoscimento.
Da qui, avverto la necessità di dare rilievo anche alla parola “speranza”. Il pensiero fondato sulla speranza si distingue nettamente dall’ottimismo. Mentre quest’ultimo, infatti, è privo di qualsiasi negatività, e non conosce né dubbio né disperazione, la speranza si radica in un terreno di incertezze. L’ottimismo è pura positività: l’ottimista è convinto che le cose andranno sempre per il meglio, vedendo il futuro come qualcosa di già predefinito e immutabile. Al contrario, il futuro, per sua natura, è irriducibile a certezze, è un territorio sempre aperto all’ignoto. Pertanto, a differenza dell’ottimismo, che non manca di nulla e che non è in trasformazione, la speranza rappresenta invece un movimento di ricerca, un tentativo di orientarsi e, nel farlo, ci spinge anche verso il nuovo, verso il “non nato”: venire al mondo come nascita è la formula di base della speranza.
La misura della speranza, in questo senso profondo e autentico, non si riflette nella nostra gioia per il buon corso degli eventi o nella nostra disponibilità ad intraprendere sforzi che possano condurci ad un successo visibile ed immediato. Al contrario, essa si misura nella nostra capacità di lottare per qualcosa che riteniamo giusto, e non semplicemente per la garanzia del successo. Quanto meno favorevole è la situazione in cui dimostriamo la nostra speranza, tanto più profonda essa risulta essere. Sperare può dunque significare “dare credito alla realtà” e avere la certezza che qualunque cosa sia portatrice di un proprio significato intrinseco, indipendentemente dall’esito che avrà.
Forse nell’ascoltarmi avrete potuto notare una mia propensione verso il tema della salute mentale, ambito in cui sto muovendo le mie prime esperienze professionali e sul quale sento di voler investire con dedizione. Nello specifico ho avuto l’opportunità di stare accanto a preadolescenti e adolescenti durante momenti di profonda sofferenza. Uno dei più grandi insegnamenti che mi hanno donato è stato l’invito a cercare sempre il nostro desiderio. Quando mi trovo nella condizione di dover fare ciò che gli altri si aspettano da me, non imparerò mai ad ascoltarmi davvero, e tutto rimarrà nella dimensione del bisogno, mai del desiderio. Il bisogno spesso non prevede tempi di attesa, non contempla negoziazione, è un imperativo, che spesso giace nel qui ed ora. Il desiderio, invece, non nasce dalla mancanza, anzi, è la mancanza che nasce dal desiderio.
La seguente domanda può aiutarci a chiarire maggiormente il concetto: “La persona è felice quando realizza il suo desiderio, oppure è felice quando individua e cammina verso il suo desiderio?”. Il desiderio, inoltre, necessita di essere autentico e per “valutare” la sua trasparenza è importante individuare se la persona si sta muovendo per essere amata oppure perché è già amata. Al termine del proprio percorso di ricovero, alcune pazienti mi hanno infatti raccontato di sentirsi più fiduciose nell’affrontare la propria vita al di fuori del reparto, poiché si sono sentite amate per quello che realmente sono e hanno sperimentato che, anche nei momenti di forte crisi, non erano sole. Da qui nasce e cresce anche la fiducia nelle proprie capacità e l’autorizzarsi a scegliere e a coltivare un proprio posto nel mondo, e di conseguenza in relazione con l’altro.
Ritengo che abbiamo la responsabilità di dare speranza e fiducia alle nuove generazioni, e non solo. Il nostro più grande obiettivo è quello che l’altro possa scegliere per sé la propria modalità di esistere, producendo così un’eventuale nuova narrazione della propria vita. È necessario dunque essere donne e uomini “desideranti” ovvero adulti che sanno far parlare la propria alterità interna con l’alterità esterna. Credo che un obiettivo per l’educatore e per i professionisti della cura possa essere quello di trasmettere all’altro la speranza che, investendo sul proprio mondo interno ed esterno, un giorno sarà possibile che egli attinga ad altre modalità e canali più confortevoli e costruttivi, non dovendo più utilizzare il sintomo come forma di espressione. Bion e i suoi allievi hanno precisato che non sono tanto le esperienze traumatiche quelle che più contano nell’orientare lo sviluppo di una vita, quanto la possibilità o meno di rileggere ciò che è già accaduto conferendogli un senso nuovo.
Desidero destinare un mio ultimo pensiero ai maestri che mi stanno accompagnando in questo mio profondo percorso di formazione e di crescita professionale e personale. Credo che il dono più grande che possiamo ricevere nella vita sia quello di trovare un maestro che ci aiuti a capire la realtà e ci faccia imparare ciò che ci serve per vivere pienamente, qualunque sia la situazione o il contesto in cui ci troviamo. Auguro a ciascuno di voi di poter vivere a pieno la bellezza di quell’incontro e magari di poter essere “maestri” un giorno, con profonda umiltà, per qualcun altro.
di Alice Cappellari, studentessa del 3° anno del corso di studio in Educazione Professionale