L’area dell’erigendo ospedale era quella attualmente prospiciente via Belfanti, già corso Vittorio Emanuele, il progetto era curato dall’architetto Antonio Arrivabene
In questo e nei prossimi numeri della rubrica ‘Come eravamo’, racconteremo la storia della sanità del Destra Secchia, pubblicando testi tratti dal libro ‘Antichi ospedali nel Destra Secchia dell’Oltrepò mantovano’, di Raffaele Ghirardi (2018, Publipaolini editore), cultore di storia e responsabile delle Attività di cure sub acute dell’ospedale di Borgo Mantovano. Il passato ci aiuta a capire il presente e a costruire il futuro. Continua di seguito la storia dell’ospedale di Ostiglia, dopo le puntate pubblicate sui numeri precedenti del magazine.
Il Regno lombardo veneto sciolse le Congregazioni di Carità; ogni istituto caritativo assistenziale sarebbe tornato a reggersi da sé, attraverso un’amministrazione e una direzione proprie. Agli amministratori era affidata la gestione patrimoniale degli istituti, ai direttori la gestione interna, disciplinare ed economica. Le Congregazioni di Carità vennero ricostituite dopo l’Unità d’Italia, con le leggi 20 novembre 1859 e 3 agosto 1862. Il 7 maggio 1839 Bernardino Ghinosi subentrò come amministratore dell’ospedale al notaio Innocenzo Draghi. L’ospedale cittadino comunque, vecchio ormai di quasi cinquecento anni, risultava ormai insufficiente rispetto alle esigenze di una comunità che, seppure in modo contraddittorio, si era evoluta dal punto di vista demografico, economico e sociale.
Ne fa fede la testimonianza dello storico ostigliese Antonio Zanchi-Bertelli che così scrive: “La casa che in origine fu edificata per accogliere i Pellegrini, e che fin qui serviva come spedale, umiliava anzichenò questo popolo”. Ed ancora: “Lo spedale è stato eretto dagli ostigliesi nel secolo decimo quinto, oltreché compariva assai maltrattato nel tempo, non bastava ormai più ai bisogni della popolazione sempre crescente”. I tempi erano maturi per decisioni importanti e la buona sorte parve favorire un nuovo progetto. Il 2 febbraio 1841 moriva Anselmo Favagrossa, farmacista ed ostigliese, lasciò all’ospedale un’ingente eredità, circa duemila pezzi d’oro da venti franchi.
Il progetto della costruzione di un nuovo nosocomio incominciò a maturare grazie soprattutto al parroco don Giulio Zapparoli e l’amministratore dell’ospedale Bernardino Ghinosi e a tanti cittadini benefattori che con ulteriori donazioni e opere testimoniarono la volontà di intraprendere l’iniziativa. La signora Maria Maddalena Gobio in Martani donò l’area richiesta per l’edificazione della nuova struttura e il 6 aprile 1842, alla presenza di autorità e cittadinanza, Don Zapparoli, parroco di Santa Maria in castello, pose la prima pietra per il nuovo ospedale, su di essa, ad ogni angolo era incisa una croce e la scritta Positus die VI aprilis anno salutis MDCCCXLII.
L’area dell’erigendo ospedale era quella attualmente prospiciente via Belfanti, già corso Vittorio Emanuele, il progetto era curato dall’architetto Antonio Arrivabene, nativo di Correggioli, ed una apposita commissione, composta da “[…] i signori dottor fisico Giulio Cesare Montani, ingegnere Foglia Antonio, Bernardino Ghinosi, Alessandro Rocca e Francesco Pasini” era preposta all’esecuzione del progetto. Antonio Zanchi-Bertelli, che sarà amministratore dell’ospedale dal 1852, descrive l’edificio come circondato da alte mura che lo separano da corso Vittorio Emanuele e, verso la periferia, da “sane ed estese pianure”. Provvisto di due ghiacciaie e di sala anatomica, l’edificio era articolato su due ali con una cappella centrale. La facciata dell’edificio, in stile neoclassico con lesene a capitello ionico, presentava un timpano con un grande orologio e sotto al quale compariva la scritta SANANDIS.INFIRMIS.PIETAS.CIVIUM.A. MDCCCXLIV, che appunto ribadiva che l’opera sorse per volontà e per la pietà dei cittadini ostigliesi.
Alla sommità fu collocata una campana racchiusa da una armatura in ferro battuto e che risale al 1770 e che proveniva dalla torre civica; porta l’iscrizione Impensis Comunitatis Hostiliae Dato Ioannes Draghi A. MDCCLXX per Ioseph Ruffini e fu fusa appunto da Giuseppe Ruffini, operante a Verona e riconosciuto maestro fonditore di quel tempo. Alla struttura vi si accedeva tramite un portale sulla cui chiave di volta era posta l’immagine di una cicogna con una serpe nel becco nell’atto di nutrire la prole. Opera di Pasquale Miglioretti essa stava a simboleggiare la virtù caritatevole che ispirava la costruzione. Del medesimo artista, di origini ostigliesi, erano le raffigurazioni dei due leoni che sormontavano le finestre laterali all’ingresso.
La cappella, con pianta a croce greca, con soffitto a cupola, con pareti provviste di cornici e da lesene con capitelli ionici, presentava un altare centrale in marmo. Con l’arrivo in ospedale delle suore Figlie della Carità, nel 1879, la cappella fu arredata con una statua della Madonna dell’Immacolata, posta sull’altare e lateralmente con le immagini di San Vincenzo de’ Paoli e di Santa Luisa di Morillac e ancora quella di Santa Caterina di Labouré, anch’ella appartenente a quell’ordine. Sempre riferibile alle Figlie della Carità sulle vetrate della porta di ingresso era incisa una M sormontata dalla croce e, sulle vetrate poste sopra l’altare, un cuore di Cristo coronato da spine e quello della Madonna trafitto da una spada. Ai lati della porta di ingresso erano poste due nicchie che ospitavano i busti in marmo, sempre opere del Miglioretti, di Don Giulio Zapparoli e di Bernardino Ghinosi, attualmente collocati presso la sala consigliare di Palazzo Bonazzi, sede del Comune. Ancora, murate, si trovavano tre lapidi con i nomi dei benefattori dell’ospedale.
L’ala sinistra, al primo piano, contava quattro ampie camere per i malati e due per gli infermieri, a pian terreno invece vi erano due stanze per l’ufficio dell’amministratore, altre due adibite ad infermeria, ove esercitava il medico direttore, una per la cucina e tre piccoli ambienti per i ripostigli. L’ala destra contava altre quattro camere per i degenti, per un totale di 37 letti. Erano previste camere per i malati infetti e contagiosi. Il piano terra prevedeva una camera per i Pazzi, per la farmacia, per il laboratorio e per il direttore dello stesso. Ogni ala era servita da una scala e fra di esse correva un ampio corridoio.
Non fu cambiata la dedica per cui l’ospedale continuò a denominarsi dei Santi Pietro ed Antonio abate onde tramandare la memoria dello stabilimento antico. Venne inaugurato in pompa magna il 12 ottobre 1844, presente la cittadinanza e le autorità civili e religiose; non c’era fra esse uno dei suoi più valenti fautori, Don Giulio Zapparoli, scomparso il primo gennaio 1843. Dalla parrocchia partì la processione a cui intervennero autorità e popolazione con gli artigiani che prestarono la loro opera nella costruzione dello stabilimento, diretta al pio istituto. Nell’occasione Zanchi-Bertelli pronunciò il Discorso sugli ostigliesi, ove si celebrava enfaticamente la virtù solidale degli ostigliesi che, alla fine della cerimonia, poterono visitare liberamente il luogo. Il parroco Don Luigi Martini pose sulla porta d’entrata un’epigrafe: Alla gloria di Dio uno (in) eterno/Al culto dei suoi Santi Pietro e Antonio/A salute dell’inferma umanità/ La carità religiosa e cittadina/ degli ostigliesi/ festeggiando consacra.
Di Raffaele Ghirardi, responsabile Attività di cure sub acute Borgo Mantovano
Nella foto in homepage l’ospedale di Ostiglia nel 1844