Luisa Rongoni scopre il suo talento durante un laboratorio riabilitativo, le sue numerose mostre raccontano quella realtà che non si vede, la bellezza nascosta dei particolari anche più piccoli
L’obiettivo della macchina fotografica è una lente per vedere la realtà più nel profondo. Per svelare il mistero della foglia, del petalo, del filo d’erba, dello spicchio di un frutto. Così piccolo – così grande – che solo un occhio sensibile può coglierlo. Un occhio reso più sensibile dalla malattia, che scava, spiana. Fa piazza pulita del superfluo e coglie l’essenza delle cose. L’obiettivo della macchina fotografica diventa allora una terapia. Per curare chi scatta e anche chi guarda il risultato straordinario che deriva da un lavoro certosino. Fatto di appostamenti, di attesa dei tempi giusti. Della luce che cade precisa e mirata a seconda delle ore del giorno e delle stagioni, illuminando quel dettaglio infinitesimale ignorato dai più.
La storia di Luisa Rongoni, 58 anni, nata a Bozzolo, paziente di lungo corso di Asst in cura all’ospedale di Mantova, laurea in psicopedagogia, parte proprio dalla sofferenza: “È stata una dottoressa molto cara a rivelarmi un talento che non sapevo di avere. Mi ha proposto un laboratorio riabilitativo alcuni anni fa. Da lì è cominciato il mio cammino. Nel 2010 mi sono iscritta a un corso di fotografia durato tre anni, alla Bottega dell’immagine di Milano, dove ho imparato la tecnica digitale e la composizione, sbilanciandomi sullo studio dei paesaggi. Già prima, però, avevo iniziato il mio apprendistato con fotografi ritrattisti e nella fotografia pubblicitaria mi sono occupa di steel life”.
Luisa si immerge nella natura per recuperare la fiducia, nei momenti di maggiore fragilità. Sta con gli alberi, i fiori, i gatti. Tanti gatti. Arriva al cuore di ciò che vede, valorizzandolo così com’è, senza finzioni. Non pretende di cambiarlo, nello stesso modo in cui ha accettato negli anni i gravi problemi di salute che le hanno sconvolto la vita, i lutti ravvicinati dei suoi familiari: “Non uso il fotoritocco, le mie immagini sono unicamente il risultato di un accostamento tra colori, forme, luci e ombre. Quando fotografo acquisisco un’identità diversa da quella della donna malata. Sento di poter creare il bello. L’arte mi solleva dallo sconforto, mi trasforma. Le foto più belle derivano dalla confusione, dallo stato di caos mentale che a volte ci sorprende, non dall’ordine”.
Come le foglie che turbinano nei giorni di vento in cielo, nei campi, sulle strade e magari ti arrivano fra le mani. Con quel rumore che tocca l’anima e che l’artista sa trasportare nelle immagini. La sala civica di Bozzolo ha ospitato sei mostre firmate da lei fra il 2006 e il 2024. Scatenando emozioni, sfiorando il confine con il sogno e la fantasia, esplorando l’invisibile e la fiaba, avventurandosi fra i versi della Divina Commedia.
Ora la fotografa è attratta dal chiostro dell’ospedale di Bozzolo, scrigno di ricordi di famiglia da studiare come un libro dalle mille pagine. Lì affronterà la sua prossima fatica artistica, muovendosi fra scorci inediti che portano il peso e insieme la leggerezza del passato: “Mio padre era portinaio del vecchio ospedale, di cui è rimasto solo quel nucleo. Da bambina mi portava con sé al lavoro. Mia zia era guardarobiera. Voglio dare voce alla memoria mia e dei bozzolesi”.
E a quella poesia impalpabile nascosta nei luoghi più impensati.
Di Elena Miglioli, responsabile Ufficio Stampa e comunicazione Asst Mantova