La sindrome di Stendhal davanti a un capolavoro. Lo psichiatra: “Persone empatiche, che entrano in contatto con il vissuto dell’artista. No all’evitamento, sì a un avvicinamento cauto”
L’arte che emoziona a tal punto da togliere il respiro. Da fulminare. Da far pensare che nell’atto creativo viva qualcosa che lo trascende. Una scintilla in grado di eternare l’opera e l’artista. Così Grazia, 66 anni, mantovana, in una cattedrale di San Pietro quasi deserta si trova sola davanti alla Pietà di Michelangelo. La scruta, accarezza le forme con gli occhi e le sembra di vedere il sangue pulsare nelle vene del Cristo abbandonato fra le braccia della madre. Una sensazione che la scuote nel profondo: “Mi sentivo felice, lontana da tutti i problemi, trasportata in un altro mondo. Ma più ero attratta da quel capolavoro e più avvertivo un certo malessere. Che mi ha costretto ad allontanarmi, a uscire dalla chiesa”.
La donna pensa a una crisi ipoglicemica, perché è a digiuno da alcune ore. A un momento di stanchezza. Invece gli episodi si ripetono. Il primo risale a diversi anni prima, al musée d’Orsay a Parigi. Osserva con tanta intensità La Gazza di Monet che le pare di viverci dentro, sentire le onde, toccare la neve: “Un giorno a cena con amici, un medico mi suggerisce che si può trattare della sindrome di Stendhal. Inizio quindi a documentarmi, a riflettere, a farci caso. Mi torna alla mente un’altra visita, nello stesso museo, con una carrellata di quadri che mi provoca nausea e svenimento. Ancora una volta devo abbandonare quelle stanze per sentirmi meglio”.
I sintomi più gravi si presentano la scorsa primavera alla Galleria Sabauda di Palazzo Reale a Torino: “Mi sentivo svenire, mi mancava l’aria, l’amica che era con me si è spaventata, ero pallidissima. Dopo queste esperienze ho capito che devo dosarmi, distogliere ogni tanto lo sguardo. Questo approccio però mi fa soffrire, perché non posso godere appieno di ciò che amo”.
Claudio Conti, psichiatra del Cps di Mantova, spiega che la soluzione non sta in una condotta evitante, ma in un tentativo di avvicinamento più cauto, che consenta di arginare l’impatto diretto: “Si può visionare l’immagine dell’opera prima del contatto dal vivo, leggere la biografia dell’artista, partecipare a una visita guidata che in qualche modo attutisca il colpo”.
Il medico fa riferimento agli studi della collega fiorentina Graziella Magherini che per prima, negli anni Settanta, descrive alcuni casi di turisti stranieri a Firenze colpiti da episodi acuti di sofferenza psichica a insorgenza improvvisa e di breve durata. La sindrome porta il nome dello scrittore che durante il suo viaggio nel capoluogo toscano si sentì mancare davanti alle meraviglie della basilica di Santa Croce.
“Come precisa la Magherini – continua Claudio Conti – questa manifestazione si basa su tre elementi fondamentali. Il rapporto con l’emozione estetica che, dal punto di vista psicanalitico, rimanda alla relazione madre-bambino. Il rapporto con il perturbante, secondo Freud una fascinazione antica, che abbiamo rimosso in quanto ci ha provocato un disagio e che ora torna a galla. Da ultimo, l’attenta osservazione che ci fa entrare in contatto con le emozioni profonde dell’artista. Lo stesso Freud di fronte al Mosé di Michelangelo, ebbe manifestazioni di questo tipo”.
L’ipotesi è che la potenza della pittura non lasci spazio a barriere difensive, come può avvenire invece con la musica o con la scrittura, che consentono forme di distrazione e di rielaborazione attraverso il pensiero: “Le persone colpite da questa sindrome sono soggetti molto sensibili ed empatici, capaci di immedesimarsi. L’emozione estetica è in grado di farci entrare in contatto con il bello. Si tratta dell’emozione più pura e autentica, è un peccato che il corpo non la sappia reggere”.