Covid, quel viaggio fantasioso di nove giorni nel sonno: “Grazie dottore, grazie Poma”

Riceviamo e pubblichiamo il racconto toccante di un paziente che descrive la sua esperienza di malattia e guarigione durante la pandemia.

“…sembravamo svuotati, sospesi in
un viaggio né terminato né da
terminare.”

Italo Calvino

 

Osvaldo Marangio

Una mattina mi sono svegliato.

Erano nove giorni che dormivo, ma questo l’ho saputo dopo.

Avevo addosso la sensazione di essere reduce da un lungo viaggio e nello stesso momento la consapevolezza di non essermi mai mosso dal mio letto.

Nella stanza, davanti ai miei occhi c’erano manifesti che parlavano di mare pulito e di altre cose che la mia presbiopia mi impediva di leggere.

Facce sconosciute ed indaffarate mi giravano intorno, spostavano oggetti, mi facevano cose.

Dove sono? Cosa mi è successo?

Dire che mi fossi svegliato in effetti è un’esagerazione. I pensieri però cominciavano ad assumere una forma più definita ed erano sempre più lucidi: già queste due domande erano sintomo di un ritorno anche se non mi era chiaro dove fossi tornato.

Fino ad allora tanti viaggi, che dopo ho chiamato sogni, mi avevano condotto in luoghi e situazioni più disparate ma con punti di approdo sempre diversi.

Ora i viaggi continuavano, ma il ritorno era sempre nella stessa stanza, nello stesso letto, davanti allo stesso monitor, di fronte allo stesso cartello che parlava di mare pulito e all’altro cartello che continuavo a non riuscire a leggere.

Il camice addosso, la maschera per respirare, i medici che ogni tanto mi si avvicinavano e il suono continuo ed ossessivo degli allarmi delle apparecchiature elettroniche. Sicuramente ero in Ospedale. Qualche medico parlava di trasferirmi di reparto, di dimissioni…ma con il camice addosso e senza né soldi né telefono né bancomat come avrei fatto a tornare a Mantova da Kuala Lumpur.

Kuala Lumpur è lontana, lontanissima, così lontana che non so neanche dove si trovi precisamente né tantomeno sapevo come avevo fatto ad arrivarci.

Il mercato di Kuala Lumpur si trova nel mezzo di grattacieli altissimi ed è pieno di bancarelle colorate con oggetti e cibi di ogni tipo. In questo caos contavo di trovare qualcosa da mettere per togliermi finalmente questo maledetto camice verde.

Girare per le strade di questa città con la tunica da ospedale non è il massimo: è trasparente e mi copre solo davanti. In queste condizioni sarà difficile incontrare un’anima gentile che mi presti il telefono per chiamare Lucia, per farmi venire a prendere e riportarmi a casa.

Come facessi a sapere quelle cose è ancora un mistero per me: mai nella mia vita precedente avevo sentito parlare di questa città. Forse i personaggi misteriosi che giravano intorno al mio capezzale c’erano stati in vacanza e ne parlavano fra di loro lasciando dentro alla mia testa delle scie di parole con le quali costruivo una sorta di realtà aumentata che osservavo tramite la mia maschera per la ventilazione polmonare.

Questi però sono problemi che avrei risolto dopo, ora dovevo trovare il modo di tornare a casa, di tornare a Mantova.

Ma poi come farò a farmi capire se parlano tutti Malesiano?

A Kuala Lumpur c’ero arrivato attraverso un percorso molto tortuoso che dalla Puglia passando dalla Calabria e dalla Cina mi aveva portato in quest’ospedale del sud est asiatico. Le tappe le ricordo i trasferimenti no.

Il viaggio era iniziato in Puglia, di questo ne ero sicuro, o meglio dire ne ero convinto. Il paese era Martina Franca, anche di questo ne ero convintissimo, in un piccolo ospedale all’interno del porto, vicino al mare. (poi ho controllato, a Martina Franca non c’è mai stato il mare.)

Non sapevo come fossi arrivato fin lì, ma il mio problema era che non volevano farmi andare via, dicevano che non stavo bene e che dovevo restare. Daniela, un’infermiera ostinata, mi aveva legato entrambe le mani ai braccioli di una sedia per la paura che fuggissi via. Io protestavo e continuavo a prometterle che avrei fatto il bravo. Le dicevo di stare bene, che non avevo bisogno di nessuna cura e che mia moglie era una sua collega ma lei, inflessibile, mi rispondeva con parole come “Diazepam” e mentre mi legava i polsi e mi invitava a stare calmo, mi chiedeva in che reparto fosse mia moglie.

Dalla sedia sulla quale ero bloccato vedevo il sedime portuale con gente di mare che entrava ed usciva. Le infermiere parlavano tra di loro facendo discorsi che non riuscivo a mettere a fuoco mentre nelle altre stanze al di là del vetro strani gruppi familiari litigavano per amori non corrisposti.

Dopo un po’ una dottoressa dall’inequivocabile accento spagnolo discuteva con un suo collega sul mio stato di salute e insieme accennavano alla possibilità di dimettermi poiché in fin dei conti non c’erano le ragioni di farmi stare lì.

Un brivido di felicità mi ha attraversato il corpo e la speranza di essere slegato e di tornare in possesso delle mie mani mi faceva stare bene. Dopo un po’ Daniela ed altre sue colleghe mi hanno trasportato con un lettino in una stanza vicino all’uscita del reparto con la porta d’uscita già aperta e con la promessa che da lì ad un po’ sarebbero venuti per portarmi altrove.

Il tempo passava e nessuno veniva a prendermi così sono partito per un altro viaggio.

Un viaggio ridicolo ed ancora ora a ricordarlo mi viene da ridere.

Mi sono ritrovato su un enorme tavolo di acciaio simile a quelli che si vedono nelle pescherie. Le mani e i piedi sempre legate ai bordi e con la convinzione che dall’alto, oltre un vetro, ci fossero quattro o cinque persone che mi controllavano e mi giudicavano tutte vestite come “Cumpari” calabresi.

Il tavolo era freddo ed io sembravo Fantozzi quando venne immesso sul mercato come cernia surgelata dopo essere stato ripescato da una paranza di Torre Annunziata. Parlavo con accento calabrese, e lo parlavo anche molto bene.

Inveivo contro queste figure misteriose e li pregavo di slegarmi mentre, proprio come un pesce appena pescato, mi agitavo disperatamente nel vano tentativo di rompere i legacci.

Sentivo addosso lo sguardo dei “cumpari” ed avevo la sensazione che stessero valutando la mia affidabilità e nello stesso tempo stessero assistendo ad una mia punizione per un torto fatto ma che non riuscivo a ricordare.

Il sogno è andato avanti per parecchio tempo con l’unico rumore di sottofondo rappresentato dalle mie urla in calabrese. Nessun altro parlava e nessuno si faceva vedere. Nelle mie contorsioni sul bancone ero quasi arrivato all’automutilazione pur di liberarmi le mani.

Io sono un tipo paziente e l’attesa in genere non mi snerva, ma sul tavolo del pesce non volevo più starci.

Esausto sono tornato. Ancora in quella stanza dove le infermiere mi avevano trasportato nell’attesa del cambio di reparto.

La porta semiaperta davanti agli occhi era un simbolo di libertà inavvicinabile. Le mani sempre legate e nel buio oltre lo stipite avvertivo del movimento.

Qualcuno faceva le pulizie, mi ricordo di un secchio e di acqua corrente ma non vedevo nessuno mentre urlavo a squarciagola chiedendo che mi trasportassero via.

Da lì sono partito di nuovo, in luoghi sempre più esotici.

Ora mi trovavo in una pescheria thailandese. Io come al solito ero legato alla mia sedia rivolto verso un vetro da cui arrivavano luci indefinite, alle mie spalle innumerevoli banconi di acciaio, che forse mi ero portato dal sogno precedente, su cui era esposta mercanzia proveniente dal mare.

Nei rari pensieri lucidi che si affacciavano nei miei neuroni, mi sono chiesto come avessi fatto ad arrivare fin lì dalla Puglia. Non avevo ricordi di viaggio e l’unica cosa che mi veniva in mente era la possibilità di esserci arrivato in aereo mentre dormivo. Who, What, Where, When, Why erano domande che non riuscivo ad affrontare.

Il locale era gestito da una megera che alternava le mie cure con il commercio ittico.

La donna parlava un linguaggio incomprensibile, ogni tanto mi infilava un ago e poi continuava a mettere a posto la mercanzia.

La mia disperazione aumentava e la voglia di essere slegato pure.

Insegne e neon colorati illuminavano il marciapiede fuori la stanza sul quale un passeggiare ininterrotto mi ricordava le vasche fatte il sabato sera in centro.

Ad un certo punto ho avvertito una presenza familiare. Non so chi fosse ma avevo la sensazione che di lui mi potessi fidare, Aveva esternato umanità nei miei confronti ed io l’avevo captata. Sembrava disposto a slegarmi ed io lo imploravo di farlo. Lui era indeciso e mi diceva che non poteva farlo anche se continuavo ad avvertire una sua disponibilità. Si scusava e quasi piangendo per non potermi aiutare si è allontanato lasciandomi solo e legato in una rianimazione-pescheria nei pressi di Bangkok.

Dalla Thailandia sono arrivato in Cina.

Sempre in ospedale, sempre legato ma oramai rassegnato. Infermiere cinesi si prendevano cura di me con dolcezza ma senza poter interagire in quanto parlavano solo cinese. Dai vetri della mia stanza vedevo un cane. Era un cane malato, un cane che non riusciva a respirare. I medici l’aveva attaccato ad un ventilatore meccanico ed i suoi padroni lo accudivano amorevolmente.

I padroni erano cinesi ed il cane era un barboncino bianco. Il padrone, un tipo grosso ed evidentemente ricco, aveva contrattato il costo della terapia con il responsabile del reparto, e trovato l’accordo avevano ricoverato il cucciolo.

Lo avevano sistemato in un lettino sospeso sul quale la povera bestia non poteva accucciolarsi ma era costretto a stare appoggiato. La macchina per respirare era stata adattata alla forma del suo muso e lui sembrava dormisse.

I medici chiacchieravano di vacanze e di cibo. Uno di loro aveva prenotato ad un ristorante di mare che, a suo dire il miglior ristorante del posto.

La dottoressa aveva accettato l’invito e quindi insieme programmavano la serata.

Intanto il tempo passava, le infermiere ordinavano il pranzo (cinese ovviamente) ed io le imploravo di ordinare anche per me che avevo una gran fame.

Nel frattempo il cane è morto e arrivati i padroni si accingevano a celebrare un funerale degno della loro ricchezza.

Una bara bianca di marmo.

Poi di nuovo il ritorno, di nuovo i beep beep delle pompe per infusione con tutte le lucine colorate intermittenti di nuovo quella stanza che diventava sempre più familiare.

I discorsi delle infermiere cominciavano ad acquistare una loro logica ed i volti dei medici cominciavano ad essere ricorrenti.

Uno di loro si è avvicinato al mio letto, e con ferma dolcezza mi ha punto sull’arteria radiale per valutare il livello di ossigenazione del mio sangue. Aveva il camice verde gli occhiali rotondi e lo sguardo stanco.

Approfittando di essere momentaneamente senza la maschera di ventilazione, gli ho chiesto dove mi trovassi con precisione. Lui guardandomi un po’ perplesso mi ha risposto che eravamo in un reparto dell’ospedale di Mantova.

Ero tornato a casa anche senza essermi mai mosso da lì. Eppure era scritto davanti a me, sul quel dannato cartello messo sul quel muro troppo distante per la mia vista ‘Ospedale Carlo Poma – Mantova’.

Dopo un po’ mi si avvicina un altro medico che conosco, in camice bianco, cuffia colorata con mascherina e visiera sul viso e con lo stesso sguardo esausto.

Sopra la visiera, il suo nome scritto con un pennarello dalla punta grossa. Mi si avvicina e mi saluta. Io gli chiedo: “Cosa ci faccio qui?”. Lui con calma e con una voce stanca ma delicata mi ha risposto:” Osvaldo, hai avuto il Covid, ti abbiamo fatto dormire. Hai fatto quello che ora vorremmo fare tutti…dormire e riposarci”.

Ciao dottore e grazie.

Osvaldo Marangio

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