La poesia in carcere: quei versi che superano le distanze e avvicinano alle stelle

Un focus sul laboratorio La parola come cura, organizzato dall’associazione La corte dei poeti, Asst Mantova e Casa circondariale

Con una virgola e un punto interrogativo (La parola, come cura?) il titolo diventa una domanda la cui risposta è una riflessione lunga come il tempo della terapia che, per eccellenza, cura con la parola.

Nella poesia, come nella psicoterapia o nella psicoanalisi, la parola deve sorprendere, perché solo uno sguardo nuovo permette di sentirsi nuovi di fronte alle cose, ai fatti che accadono, agli eventi che scaturiscono dalle nostre azioni. Azioni e parole.

Lucia Papaleo

La parola che cura è sempre azione e, di conseguenza, cambiamento. Anche in carcere, chiunque vi si accosti deve conservare e coltivare la speranza del cambiamento, la fiducia che ciò possa avvenire, per sé e per gli altri, per i pregiudizi e per l’efficacia del giudizio. Nel carcere abbiamo trovato parole che descrivono lo sguardo obliquo sulle cose, che è il modo diverso che hanno i poeti di porsi nel mondo, di rappresentarsi la realtà, di farne un racconto.

Questo è ciò che abbiamo toccato nelle parole scritte dai ragazzi e dalle ragazze della Casa circondariale di Mantova durante le nostre piccole “prove di laboratorio”: i desideri, che sono già cambiamenti, prima ancora della loro realizzazione. De-siderare (letteralmente “allontanarsi dalle stelle”) è dunque un legame con qualcosa che manca, è la tensione ad approssimarsi a quella mancanza, è qualcosa di supremo, di altissimo, di assolutamente puro, così distaccato dagli impasti impuri della terra.

Desiderare è poi volontà di superare le distanze, mentre il carcere è quanto di più forte esista nel creare le distanze, separando le persone dal contesto. Separa le persone che hanno infranto un ordine (naturale o sociale), separa affetti, oggetti e pensieri. Chi è fuori può sentirsi anche distante e legalmente separato, al riparo da chi ha commesso reati e sovvertito l’ordine; ma chi è dentro non dimentica l’oggetto da cui è stato separato. (…) Per questo il carcere è il luogo da cui chi vi è detenuto desidera uscire, fuggire, evadere. Però è anche uno dei luoghi eletti di cui si nutre la letteratura, da cui essa attinge per le metafore e per creare storie di separazione. Ispiratore di dure emozioni, sacrilegio di libertà, pietra d’inciampo del perbenismo.

Si manifesta così, quasi per contro, il desiderio di entrare. Ci siamo chiesti cos’è questo desiderio? Cosa avremmo ricevuto da questa vicinanza? Quali stelle avremmo trovato dentro? Abbiamo ricevuto la loro scrittura, le parole con cui i sentimenti sono affiorati, ancora senza i filtri della precisione poetica. Hanno scritto di quanto sperano di trovare quando riavranno la libertà, delle persone che li aspettano o che non ci sono più, delle persone danneggiate, della paura di non essere riconosciuti, o che non sia riconosciuta quella parte umana che rimane comunque intatta nonostante il gesto violativo.

Scrivere sembra essere l’ora d’aria della mente, il suo respiro libero. (…) Entrare e uscire dal carcere è la soglia su cui ho voluto fermare le riflessioni, il luogo dove dare senso alle scritture raccolte, non ancora poesia e non più privati pensieri. (…) Noi siamo entrati come “ambasciatori” di un Premio e di un Festival, quello di Mantova Poesia, siamo entrati insieme a illustri precursori: Silvana Ceruti, fondatrice del Laboratorio di lettura e scrittura creativa di Opera, Alberto Figliolia, valido braccio destro di Silvana, poeta e haijin, con Fabio Presticci, poeta uscito da Opera e rientrato come volontario.

L’esperienza continuerà, perseguendo un’attinenza con la cura tramite la parola, il punto di incontro tra creatività e salute. Ma sono già stati raccolti copiosi frutti, la poesia è sgorgata in forme dirompenti, ancora da raffinare, perfezionare, ma già con un forte anelito lirico, ricorrente nel tu interlocutorio e dialogante, che emerge in tutte le scritture consegnateci. E il riferimento a un tu è anche ciò che ispira Madre Maria Ignazia Angelini nella prefazione a un libro di poesia nato tra i fogli del Laboratorio di Opera, dove scrive che «la poesia ha una scaturigine orante poiché è parola che invoca gli altri».

Infatti i frammenti di poesia raccolti in carcere sono invocazioni a un tu: amato, offeso, separato, riparato. Rileviamo un percorso, un andamento. All’inizio prevale il trauma della separazione dal tu, per poi arrivare a maturare, nella scrittura, il desiderio di ricongiunzione con un tu plurale, in un contesto più allargato, testimoniato dalla comparsa della terza persona, dalla pluralità di interlocutori.

Pian piano il tu diventa noi. Un noi ai quali queste persone offrono le più intime riflessioni, senza conoscerci e senza pudori (…).

La trasformazione è un processo in espansione che prima o poi tocca tutti gli aspetti della vita, a partire anche da uno scritto, che da incomprensibile, incompleto e non pertinente, diventa un pensiero che rappresenta chi lo scrive, anche nei casi in cui quest’ultimo decide di mantenere insensato il suo testo. Insensato come i sogni.

La testimonianza qui pubblicata è relativa alla rassegna di eventi La parola come cura, che si è tenuta nei mesi scorsi nel carcere di Mantova, organizzata dall’associazione La corte dei poeti, Asst Mantova e Casa circondariale di Mantova nell’ambito di un progetto di medicina narrativa. Il testo è un estratto dell’introduzione all’antologia del Premio nazionale terra di Virgilio edizione 2023 (Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio, autori vari, Gilgamesh edizioni).

Di Lucia Papaleo, presidente dell’associazione La corte dei poeti

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