Il tocco che cura

Pubblichiamo di seguito il racconto di Daniela Pasquali, infermiera di ASST Mantova, che ha vinto il Premio letterario nazionale Flaminio Musa, della Lega Italiana per la lotta contro i tumori (Lilt) di Parma, nella categoria professioni sanitarie.

La notte aveva lasciato spazio alle prime ore dell’alba, ma già da tempo le infermiere erano in fermento per garantire ai pazienti ricoverati le prime cure igieniche dopo l’intervento chirurgico del giorno prima. Quella mattina, sentivo le loro voci, distinguevo i loro passi, immaginavo i loro gesti come se il tutto avvenisse in un mondo irreale che non mi riguardasse, un brutto sogno, uno di quelli che ti lasciano storditi, a cui rispondi a te stessa che è pura immaginazione e che la realtà è tutt’altra storia.

Lenzuola bianche, linde, tirate a coprire il volto, candore simile al soffitto che mi appare come una vallata ricoperta di neve fresca e pura appena caduta, in una fredda giornata di dicembre. Forse mi risveglio dal torpore, ma è bello pensare che il corpo sofferente che giace in quel letto non è il tuo e ciò che percepisco è frutto di un momento di pura follia. Pareti di un azzurro tenue che inizia a fare a gara con il colore del cielo che riesco ad intravvedere attraverso le fessure della tapparella di un enorme finestrone situato alla sinistra del mio giaciglio. Chi vincerà oggi il premio del colore più intenso? L’arcobaleno delle sfumature più improbabili che si venivano a combinare quel giorno proiettavano nella mia mente la sagoma di un’altalena sulla quale riuscivo a cullarmi per cercare di trarne un po’ di sollievo.

Ma in quel luogo non ero in grado di muovermi e come paralizzata dalla paura non osavo guardare quei tubicini che dall’alto e dal basso erano un tutt’uno con me e che in quel preciso momento, lentamente, si manifestavano per il loro diritto di esistere. Ho i capelli informi e maleodoranti appiccicati al cuscino e le palpebre che in continuazione tendono a sbarrare la vista della dura e cruda realtà ai miei occhi, hanno difficoltà ad alzarsi, diventando sempre più pesanti e cadenti. In bocca il sapore acre della saliva non vuol essere deglutita perché il boccone è troppo amaro da mandare giù.

All’improvviso, la luce fredda di un neon si accende, due infermiere sorridenti con il carrello della biancheria entrano in stanza e io mi accorgo che non è finzione ma pura realtà. Ora rammento, la nebbia dell’oblio ha lasciato spazio al flebile bagliore della coscienza e mi rendo conto del motivo per cui sono li. Controllano la flebo in un braccio e l’elastomero nell’altro, informandomi che la morfina non mi farà sentire dolore, almeno sino al giorno successivo. Già, del dolore fisico in quel momento, mi ero completamente dimenticata. Alzano le coperte e mi chiedono se voglio scendere per andare in bagno per essere lavata e cambiata, ma io dissento. Insistono puntando sul fatto che mi devo fare coraggio; le ringrazio e dico loro che a minuti sarebbe arrivata un’amica, una loro collega che avrebbe provveduto all’espletamento di tale incombenza. Mi chiedono frettolosamente come stò e mentre la situazione mi appare molto più chiara, inizio a percepire la trasformazione del mio corpo. Rimango immobile e cerco di non pensare a nulla. Mi rifiuto di bere il tè fumante che mi hanno appena portato, sarei costretta a guardarmi, a muovermi, a sentirmi, ma non sono ancora pronta ad affrontare lo scempio che da poco si è concluso. Rivolgo lo sguardo verso il cielo e all’improvviso appaiono gli stessi occhi azzurri della persona che il giorno prima mi aveva detto che era andato tutto bene, che ce l’avevo fatta, che avevo salva la vita.

Sospiro profondamente e noto che il diaframma sposta una massa informe che non ha niente a che fare con il mio seno. Quel seno dal quale i miei figli da piccoli si erano nutriti e avevano nascosto il loro faccino e col quale avevano giocato, quel seno che sino a poco tempo prima mio marito usava come cuscino, quel seno abbondante e rigoglioso che con fierezza mostravo senza pudore. Quello stesso seno che mi stava spegnendo la vita e che avevo cominciato ad odiare e maledire. I medici lo avrebbero sostituito con un suo degno sostituto, ma come un estraneo non mi sarebbe appartenuto e il terrore di non riconoscermi e di non abituarmi ad una corporeità diversa da quella che conoscevo da una vita, mi impediva di affrontare la triste e amara realtà.

Ero arrabbiata e non c’era in quel momento parola, frase o ragionamento logico che mi sollevasse dal dolore devastante e inconsolabile della mia anima. Mi sentivo come se avessi perso il mio io, la mia identità, il mio ruolo, la mia immagine, la mia femminilità, la mia fisicità, il mio essere donna, madre, moglie, amante, amica, sorella, annientandomi e rendendomi impotente come mai era accaduto prima.

All’improvviso percepisco il rumore ritmico di passi felpati dirigersi verso la porta della mia stanza ed entra lei, piccola e minuta di statura, voce squillante, calma nei movimenti, capelli rossi ben pettinati, il solito rossetto di un color rosso vivo sulle labbra, il classico profumo dolce e vanigliato, curata e impeccabile nell’aspetto e nel portamento, un accenno di sorriso e gli inconfondibili piccoli occhietti vispi di un azzurro intenso, che tuttavia lasciano trasparire una nota di inconsolabile tristezza. La sua presenza mi rasserena; in una mano tiene un bicchierino di caffè e nell’altra una borsa con del materiale di cui ignoro il contenuto.

”Oggi ci facciamo belle, ci laviamo, ci mettiamo la crema, ci profumiamo, ci cambiamo e ci sistemiamo anche i capelli!”

Esordisce sicura con questa frase, mostrandomi i prodotti per l’igiene di ultima generazione conservati per le occasioni speciali, strappandomi  un accenno di sorriso, ma io non me la sento di farmi bella, mi faccio schifo, ho paura dell’oggi ma sopratutto del domani, vorrei non esistere e le comunico che non c’è nessun motivo di rendere il mio aspetto migliore. Per chi, per cosa e per quale ragione?

Voglio crogiolarmi nella mia indifferenza e mi assento con il pensiero per un po’. Mi scruta in silenzio ma non demorde e comincia a preparare il piano di lavoro, mostrandomi uno per uno il contenuto delle scatoline che erano all’interno della borsa. Le chiedo di guardarmi e di osservarmi bene; non può ignorare che sono diversa. Sono pallida, curva, triste, piegata in due per i dolori dell’anima che la morfina non ha attenuato, ho due drenaggi che mi fuoriescono dal torace, ho un cerotto che mi sta coprendo una cicatrice, sono sporca e puzzo di disinfettante dalla testa ai piedi,  sudo perché sono agitata e mi vergogno terribilmente; in quel momento desidero solo nascondermi, sprofondare negli abissi. Non può ignorarlo, deve solo guardarmi e non far finta di nulla, come se niente fosse accaduto! Irremovibile, sgranando gli occhi mi guarda da capo a piedi ed esclama :

”E allora? Hai finito? Tu sei sempre tu, con un pezzo di corpo in meno ma sei sempre tu! Per me non è cambiato nulla, quindi poche storie e mettiamoci all’opera che ci dobbiamo far belle!”

Già, per lei niente era cambiato, ma io ero stata catapultata in una storia che non volevo e dalla quale fuggivo rifiutando di essere l’attrice principale, quella storia che non desideravo mi appartenesse. Avevo timore del presente e del futuro e non riuscivo a vedere nessuno spiraglio, nessun lieto fine. Per un mese nel buio e nell’incertezza avevo cercato di trovare risposte ai tanti perché, sbattendo contro gli spigoli dell’indifferenza e della solitudine, ma il vedere e sentire lei mi acquietava.

Con estrema dolcezza mi aiutò ad alzarmi non staccando mai i suoi occhi dai miei, tenendomi sotto braccio con una presa forte e sicura senza mai discostarsi da me. Nel tragitto percepivo il suo odore che sapeva di buono e la sua voce calma e rassicurante che mi indicava cosa stesse accadendo ogni attimo. Mi accompagnò in bagno e delicatamente mi spogliò liberandomi dall’informe e maleodorante camicione che mi copriva il corpo. Insaponò una manopola di spugna e con soave naturalezza mi raccontò di chi le chiedeva come stessi, parlandomi delle loro preoccupazioni, porgendomi i loro saluti e informandomi che non sarei mai stata sola perché lei avrebbe vigilato su di me finchè ci fosse stata la necessità di farlo. Il tocco lento e caldo della sua mano perlustrava attentamente centimetro dopo centimetro la mia pelle  passando in ogni angolo e ogni piega del mio corpo. Era un dolce e tenero massaggio che mi dava sollievo isolandomi completamente dai suoni della sua voce. Lei parlava e parlava, ma io non la ascoltavo. La guardavo attraverso lo specchio mentre mi toccava, mi lavava e assaporavo ogni passaggio delle sue mani delicate che con tanta cura, premura, dedizione e amore, come una calda e lunga carezza, si faceva carico del mio corpo e della mia anima entrambi scalfiti da una profonda ferita.

Ricordo che seguivo alla lettera ciò che mi indicava di fare pur non  comprendendo in pieno il senso delle sue parole perché concentrata a gustarmi il tepore e l’energia di quelle piccole estremità che spalmavano la crema profumata massaggiandomi le gambe, la schiena, il torace, le braccia, le mani, il viso, permettendomi di lasciarmi cullare da un benessere ed un’estasi di cui avevo dimenticato l’esistenza. Mi sentivo in quel momento sospesa in una dimensione che era altro dalla visione oggettiva del mio corpo martoriato e sofferente, ascoltando le emozioni, le sensazioni piacevoli e i messaggi che la mia pelle mi stava invitando a riconoscere e a vivere. Mi lavò i capelli con la stessa parsimonia, mi pettinò e asciugo la chioma profumata con la stessa cura, mi vestì con i pantaloni della tuta ed una maglietta, mi spruzzò un’ essenza che sapeva di buono come lei e mi disse:

“Guarda come siamo belle! Fammi però vedere il tuo solito sorriso, come quello che fai sempre quando mi incontri!”

Era stata con me un tempo incalcolabile in quel bagno dell’ospedale con le mattonelle gialle, odorante di disinfettante, parlando in continuazione di cose che nemmeno avevo compreso, ma ciò che mi ha rigenerato non sono stati l’alternarsi dei vocaboli pronunciati, bensì la sua presenza, la sua fisicità, l’esserci, i gesti, la cura, il trasporto, l’autenticità, la naturalezza di quei tocchi che mi hanno permesso di perdermi, di lasciarmi andare, di ascoltare la voce del corpo e non le elucubrazioni mentali della ragione. Ho goduto di quello stato di grazia per al alcuni giorni, sono riuscita a guardarmi allo specchio, ho ascoltato il dolore, la paura, la frustrazione la sofferenza, non potevo lasciarli fuori perché erano parte di me. Nel momento in cui li ho riconosciuti, loro se ne sono andati, tornando nei mesi successivi di tanto in tanto. La conquista della serenità e l’accettazione di quanto è accaduto è stato un percorso lungo, incerto e tortuoso ma non potrò mai  dimenticare come dei semplici, naturali, spontanei tocchi agiti da una collega infermiera, che esulavano da qualsiasi sofisticata e complessa tecnica o metodologia assistenziale acquisita durante il percorso formativo, mi abbiano rigenerato nel cuore, nel corpo e nell’anima e proiettato verso un percorso di cambiamento.

Aveva ragione lei, la malattia ha leggermente modificato la mia figura, ma ciò che conta ora è che io sono sempre io “con un pezzo in meno” e lei me lo ha dimostrato semplicemente con la tempesta di sensazioni ed emozioni scatenate dal tocco delle sue mani posate sul mio corpo.

Di Daniela Pasquali

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