La signora che viveva con le galline e altre storie di ordinaria follia: memorie dall’ospedale psichiatrico di Dosso del Corso

L’evoluzione delle cure dopo la legge Basaglia vissute dallo psichiatra Marco Degli Esposti: “C’erano pazienti visti solo nei trattati di psichiatria. Ma si sentivano a casa e quando si chiuse, non volevano andarsene”

Lei viveva con una decina di galline. Le teneva nella sua stanza, dormiva con loro. Le voleva solo per sé. La mattina apriva la porta e via: tutte fuori nel parco a nutrirsi dell’erba di Dosso del Corso. Non c’era verso di farle cambiare idea. Ma soprattutto, non si riusciva a curarla. I medici e gli infermieri ci avevano provato più volte, anche rincorrendola con i farmaci in mano fra i vecchi padiglioni della struttura alla periferia della città e del mondo. La paziente, sulla sessantina, stava così. Allo stato brado, come i pennuti che allevava. Uno dei quali però finiva in pentola una volta all’anno, arraffato da un infermiere per farci il brodo degli agnoli, da mangiare con il resto dei pazienti e l’équipe. Una bella mangiata, visto che della padrona non si riusciva comunque ad avere ragione.

La signora delle galline è fra i personaggi più folcloristici rimasti nella storia dell’ospedale psichiatrico Sacchi di Mantova. Chiuso il 31 dicembre 1999 in definitiva applicazione della legge Basaglia, che sopprimeva i manicomi. Marco Degli Esposti, oggi direttore del Ser.D di Asst Mantova, racconta la sua esperienza di allora giovane psichiatra. Venuto da Bologna nel 1996, rimase affascinato dall’opportunità di imbattersi in pazienti incontrati solo nei testi di psicopatologia di inizio Novecento. Il medico ha vissuto in prima persona il passaggio dal vecchio al nuovo corso in ambito psichiatrico: “Dal punto di vista professionale, ma anche umano, mi interessavano molto quei malati sopravvissuti ormai in rarissime realtà italiane. Gran parte della loro sintomatologia andava infatti attribuita al lunghissimo isolamento rispetto alla società sana, all’allontanamento dagli stimoli delle comuni relazioni umane. Venivano considerati un pericolo per sé o per gli altri e ricoverati anche con l’intervento delle forze dell’ordine. Quasi tutti manifestavano comportamenti regrediti e alcuni parlavano solo lo ‘schizofrenese’ stretto”.

Qualcuno era arrivato poco più che bambino, altri cresciuti in orfanatrofio e poi approdati lì una volta maggiorenni, di solito con una diagnosi di ritardo mentale. Naturalmente, i più numerosi erano anziani con schizofrenia: due di loro rinchiusi dai tempi della seconda guerra mondiale. Anche perché dagli anni ’80, per effetto della nuova normativa, non veniva più internato nessuno: “Ricordo un paziente con una forma di catatonia particolarissima. Avevo visto un caso analogo solo nella foto di un volume di medicina del 1911. Quando si coricava, riusciva a stare con il collo sollevato, come se avesse un cuscino sotto la testa. Poi i deliri molto fantasiosi, come quello di una distinta vecchietta che raccontava di essere figlia di un principe, discendente di re Davide”.

Gli ospedali psichiatrici furono concepiti come luogo di cura, con i limiti e le conoscenze dell’epoca. Si rivelarono invece fonte di degrado e alienazione. Da qui il bisogno, accolto dalla legge 180 del 1978, di restituire i malati alla comunità, per favorire un’integrazione indispensabile. Con la fine del manicomio si verificava il ribaltamento della logica su cui fondare l’assistenza psichiatrica: l’accento si spostava dalla protezione della società dal ‘folle’ alla necessità di predisporre strutture e servizi territoriali che consentissero di vivere la propria esperienza di crisi mantenendo i legami con la collettività. Ecco il modello della psichiatria comunitaria: “Il tramonto del manicomio ha rappresentato soprattutto la riconquista di libertà e diritti per i pazienti. Valori civili che hanno improntato la successiva attività del reparto ospedaliero di ricovero psichiatrico del Poma. Una delle pochissime, vere eccellenze italiane e mondiali, dove non si contengono, cioè non si legano al letto le persone ricoverate”.

Al di là dei modelli e delle condizioni di cura, che già erano cambiate radicalmente nei decenni precedenti, con la soppressione dei grandi reparti e l’istituzione di ‘case albergo’, alla fine degli anni ’90, al Sacchi di Mantova si respirava aria di umanità. Il personale si  affezionava a quelle presenze, divenute nel tempo familiari e amiche. Quando fu il momento di chiudere a seguito della legge – a favore del trasferimento nelle comunità terapeutiche ad alta assistenza, nelle case di riposo, nelle famiglie di origine o, nei casi meno gravi, in appartamenti autogestiti – gli operatori sanitari constatarono con una certa sorpresa che i pazienti stavano bene dove erano e avrebbero voluto restare: “Lo avevamo scoperto somministrando un questionario sulla qualità della vita. Si sentivano mediamente molto soddisfatti. Per la sicurezza dell’ambiente, per la compagnia, perché non erano soli, perché potevano anche mangiare a piacimento”. Semplicemente quella era diventata la loro casa.

Così, il giorno della verità, la signora delle galline tese un signor tranello al personale che aveva cercato di raggiungerla nella propria stanza per spiegarle quale sarebbe stata la sua sorte. Vista la sua irriducibilità, l’unica soluzione era sfondarle la porta. A quel punto lei che fece? Vuotò una secchiata di escrementi di gallina addosso alla delegazione, ai suoi occhi malintenzionata. Avrebbe deciso lei tempi e modi per dialogare con il personale. Dopo poche ore dal fattaccio si presentò in direzione tirata a lucido, con tanto di rossetto, per ricevere indicazioni sul da farsi. Fu dimessa, a casa di una parente. Le sue galline rimasero a Dosso del Corso ancora per anni. Si erano oltremodo inselvatichite e avevano preso a svolazzare e appollaiarsi sugli alberi. Testarde come la padrona. Ultime reduci del tempo che fu.

 

Elena Miglioli è il direttore del periodico Mantova Salute, responsabile dell’Area Ufficio Stampa e Comunicazione di ASST Mantova. Giornalista professionista, scrittrice, poetessa. Ama tutte le forme d’arte, ma mette la musica (classica) al primo posto.

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