Farò il medico

«Tu dove ce l’hai il tumore?»
«Io non ho un tumore».
«E allora perché sei in questo reparto»? Qui ci sono i ragazzini malati di tumore. Come me. Come quelli della stanza di fronte.

Marco si volta dall’altra parte. Non vuole continuare la conversazione. Il vicino di letto insiste nel riprendere il filo del discorso, ma lui taglia corto. Gli bastano le parole del padre. Le altre sono tutte storie.

«Ho un’infezione al ginocchio. Nessun tumore. Così ha detto mio papà, che è medico. Mi operano domani».

Non regge più. Vorrebbe che il chirurgo scacciasse con il bisturi il mostro che si è rintanato nel suo ginocchio destro. Urla sempre più forte, maledetto mostro. Non sono servite le cure durissime, i giorni interminabili trascorsi in corsia a farlo un po’ tacere. Nemmeno l’odore del dolore è servito a ucciderlo. Perché il dolore ha un odore tutto suo, che si confonde con quello dell’ospedale.

Alle volte, Marco sta così male che sente una fitta al petto, come se gli si aprisse una crepa al posto del cuore. Allora vorrebbe chiudere gli occhi per sempre e sparire dentro una delle nuvole in fuga fuori dalla finestra della stanza. Le osserva per distogliere il pensiero dal suo cruccio. Ma non ci riesce. I batuffoli giganti che si rincorrono in lungo e in largo sullo sfondo azzurro sembrano prendere le forma di mille mostri. Un’altra nuvola si espande all’improvviso, inseguendoli: è un cavaliere, impugna una spada. È il chirurgo con il bisturi che farà piazza pulita della sua infezione.

Papà gli ha detto che il chirurgo è molto bravo. Si chiama Giovanni. Oggi lo ha intravisto sulla porta. Discuteva con i suoi genitori. Marco non sentiva cosa si stessero dicendo. Gli è rimasta impressa solo la faccia di mamma rivolta verso il pavimento. Allora ha avvertito la solita crepa nel petto. Il dottore alla fine lo ha osservato per qualche istante, si è sfilato gli occhiali e lo ha raggiunto. A Marco è parso di vedere un mantello sventolare sopra il camice dell’uomo, dietro la schiena. Aveva proprio l’aria di un eroe, forte e fiero. Così si è un po’ emozionato quando lui gli ha accarezzato la testa dicendogli: ragazzino, a te penso io, tu devi solo metterci un po’ di coraggio.

Gli chiedono un’altra volta di avere coraggio? Lui non sa se ne è rimasto ancora da qualche parte, nella mente o nel corpo: pensa di averlo esaurito. A quel punto gli scappa lo sguardo tra le ante dell’armadietto semiaperto, il numero 26. E vede le sue Nike, abbandonate da troppo tempo, sfrattate dalle ciabatte. Devono avere le ali, quelle scarpe. Visto che indossandole ha portato a casa più di una medaglia sui campi di atletica quando era in forma. Chissà che un po’ di coraggio non sia rimasto appiccicato alle suole.

«Ragazzino, sei guarito! Puoi tornare a casa. Ce l’abbiamo fatta, io e te insieme. Lo sai che senza il tuo coraggio non sarei riuscito a curarti»?

Il dottore stringe il giovane paziente in un abbraccio e il mantello dietro la schiena lo segue con uno svolazzo. Stavolta, oltre all’emozione, Marco sente gli occhi, i suoi occhi rubati al mare, che si gonfiano. Sono zuppi, come se ci avesse piovuto dentro. Una pioggia fresca, trasparente. Ma non vuole mostrare quella debolezza al cavaliere che ha sconfitto il mostro del ginocchio. Non può permettersi di piangere davanti al medico. Stringe i denti più forte che può e riesce a confessare al chirurgo il pensiero che lo ha tenuto sveglio per buona parte della notte. E che forse lo ha già fatto diventare uomo. Un chiodo piantato nel petto, che ha chiuso definitivamente quella odiosa crepa. Si sente a sua volta un cavaliere. Lui che prima dell’intervento chirurgico aveva racimolato l’ultimo rimasuglio di coraggio nelle scarpe per offrirlo al chirurgo. La sua fatica è servita davvero a qualcosa.

«Dottore, le confido un segreto…Voglio diventare come lei. Farò il medico»!
«Questa è una notizia straordinaria! Mi seguirai. Ti insegnerò a diventare molto più bravo di me».

Anche stavolta il medico gli accarezza la testa, come il giorno prima di portarlo in sala operatoria. Con loro c’è papà. E a Marco, per un momento, pare di averne due, di padri. La faccia di mamma, ai piedi del letto, non è più rivolta verso il pavimento. Il sole che filtra nella stanza la fa risplendere tutta. Così luminosa non l’aveva mai vista prima d’ora.

Osteosarcoma: tumore primitivo maligno dell’apparato scheletrico. Può colpire a qualunque età, ma è più frequente tra gli adolescenti e i giovani adulti. La verità emerge come una pugnalata dai testi universitari della facoltà di Medicina. Il mostro del ginocchio non era un’infezione. Aveva un nome, che non gli era stato detto per senso di protezione. Marco lo scopre studiando sulle dispense di Ortopedia. Quel giorno si riapre la crepa nel petto. Alle narici gli arriva di nuovo l’odore del dolore. Però lo allontana subito, perché oggi è un uomo ed è più forte. Forte della scelta di diventare come il chirurgo che lo ha salvato qualche anno prima. Di potere quindi salvare, a sua volta, altre persone.

Il giorno dell’esame l’ansia gli sale in gola, è un sorso di birra troppo amaro. In commissione c’è lui, il medico che lo ha ripescato tra le nuvole della disperazione e lo ha rimesso con i piedi a mollo nella vita. Non sa a cosa pensare per mettere un freno alla tensione.
Ecco, è il suo turno. Si alza per avvicinarsi al tavolo, ha le gambe di gelatina. Si siede sull’orlo della sedia e allunga il libretto al professore. È proprio lui, il chirurgo che gli aveva restituito il presente e il futuro. Ha la tentazione di andarsene, ma rimane. Il professore fissa la fotografia in prima pagina, poi la confronta con l’immagine dello studente in carne e ossa. Lo ha riconosciuto. Il paziente a cui aveva tolto l’osteosarcoma, il ragazzino che dopo essere guarito gli aveva promesso di diventare medico è lì davanti. Con qualche anno in più sulle spalle e gli stessi occhi rubati al mare. Una lacrima gli scende da sotto gli occhiali. Vorrebbe parlare, ma le parole si fermano sul letto d’ospedale di quell’adolescente a cui un giorno aveva chiesto di metterci del suo. Di metterci del coraggio. Da lì non vogliono scendere. Marco abbassa lo sguardo per nascondere l’emozione.

«Professore…».
«Giovanni, chiamami Giovanni. Non ti farò domande, non preoccuparti per l’esame. Ne hai superato uno che vale quanto un’intera laurea».

E sul libretto verga un 30 e lode.

 

Tratto dal libro di racconti ‘Non sono briciole’, di Elena Miglioli (Porto Seguro Editore)

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