Un’ostetrica di altri tempi: “Così passai dal parto a casa all’ospedale”

Bruna, 90 anni: “Andavo a domicilio in bicicletta, percorrendo chilometri di giorno, di notte, con pioggia, nebbia e neve”

Sono nata a Ostiglia il 17 gennaio 1931. Parlo sempre volentieri della mia vita da ostetrica. Con due sorelle in famiglia, di molto maggiori di me, coccolata da tutti quasi come una figlia unica, mi piaceva molto andare a scuola. Nell’ultimo anno di guerra (1945), terminati i tre anni di avviamento e poiché il mio paese non offriva grandi opportunità, fui costretta a interrompere gli studi.

Mi sarebbe piaciuto fare la maestra, ma una mia amica, che già frequentava la Scuola di Ostetricia presso l’Università degli Studi di Ferrara, mi esortò a intraprendere questo percorso. Poiché mi piacevano i bambini, pensai che anche questa professione potesse essere giusta per me. Fu così che nel 1948 mi iscrissi al primo anno della Scuola di Ostetricia di Verona, che dipendeva dall’Università degli Studi di Padova, diretta dal professor Martinolli e dalla maestra ostetrica Tintori.

Per tre anni, partivo da casa in bicicletta alle cinque del mattino, per recarmi poi in treno a Verona. Fortunatamente, per i periodi di internato potevo contare sull’ospitalità familiare dei miei zii che abitavano in città. Nella mia prima notte di praticantato, in Maternità a Verona, assistetti a ben nove parti fisiologici! Impossibile dimenticare. Il 21 luglio del 1951 conseguii il diploma di ostetrica, discutendo una tesi sulla “Tossicosi gravidica”.

Ancor prima di acquisire il diploma, il direttore della scuola e la maestra ostetrica mi avevano chiesto di restare in clinica a Verona come ostetrica assistente, ma in paese, dove tutti sapevano dei miei studi, le gestanti reclamavano la mia assistenza, così decisi di non accettare la loro proposta e di intraprendere la libera professione. Fu così che dal 1951 al 1970 lavorai, nella stessa frazione in cui ero cresciuta, ma anche nei comuni limitrofi, sia come libera professionista, sia come ostetrica interinale (condotta).

Venivano a chiamarmi i mariti alle prime doglie e con loro, in sella alla mia bicicletta, mi recavo al domicilio delle gestanti, coprendo spesso distanze di decine di chilometri, di giorno o di notte, con sole, nebbia, pioggia, neve… ma sempre con grande entusiasmo e vera passione. Avevo poco più di vent’anni, ma godevo già della considerazione dettata dalla saggezza popolare: “Dotor, pret e c’mar, tre personi da rispetar”.

La mia borsa ostetrica in cuoio conteneva i fondamentali della professione. Al mio arrivo visitavo la donna col più sicuro degli strumenti diagnostici disponibili all’epoca: le mie mani, che verificavano la posizione del feto e la dilatazione. Il monitoraggio del battito lo facevo con lo stetoscopio di legno; controllavo la frequenza delle contrazioni con il “prezioso” orologio coi minuti secondi che mi ero fatta regalare da mio marito e, durante il travaglio, sterilizzavo gli strumenti facendoli bollire in una pentola di cucina (o direttamente nella caldaia della stufa a legna!) mentre le siringhe in vetro e gli aghi venivano bolliti nella loro vaschetta d’alluminio.

Completavano la dotazione il camice immacolato, i disinfettanti, l’alcool denaturato e un unico farmaco antiemorragico, l’ergotina. Per il neonato disponevo di un collirio, per la profilassi oftalmica, e del violetto di genziana o del miele rosato, per curare un eventuale mughetto del cavo orale. Dopo il taglio del cordone ombelicale ero solita fare un’ansa e applicare un anello di gomma; medicavo poi una volta al giorno con alcool denaturato fino alla caduta del moncone.

Il peso del neonato veniva determinato con il mio pondopediometro. Sono sempre stata molto orgogliosa di questo strumento in quanto non era nella disponibilità di tutte le ostetriche del tempo.

Prima del travaglio avrei dovuto praticare la tricotomia ma, per rispetto al grande pudore delle donne dell’epoca, confesso che in genere la tralasciavo, salvo nel caso in cui l’assistita necessitasse di un trasferimento in ospedale per il sopraggiungere di complicanze.

Durante il travaglio le donne stavano a letto, in piedi, o camminavano, a seconda del loro sentire e io, con estrema regolarità, auscultavo il battito cardiaco fetale con il mio stetoscopio. A dilatazione completa ero solita tenere le donne tranquille insegnando la respirazione e le modalità di spinta più efficaci.

Il parto si svolgeva sul letto matrimoniale che per le manovre necessarie era decisamente scomodo rispetto a un letto singolo, ma dava alla puerpera la tranquillità di essere a casa sua. Sopra il materasso posizionavo una tela cerata e a seguire un lenzuolo e un asciugamano. All’evento collaboravano le donne di famiglia, a volte troppe donne, che per l’occasione mi vedevo costretta ad invitare a uscire, per il rispetto dell’intimità della puerpera e il buon andamento delle operazioni.

Seguivo la donna in gravidanza, ma mi accadeva di assistere anche al travaglio e al parto di donne che non avevo mai visto prima. Ricordo anche un caso in cui arrivai al domicilio della donna quando il bambino era già nato: era stata l’anziana signora, vicina di casa della partoriente, a tagliare il cordone…e a legarlo col refe!

Al termine dell’assistenza al parto, redigevo il Certificato di nascita, che trascrivevo sul registro ufficiale dei parti, e dovevo consegnare io stessa all’Ufficio Anagrafe del Comune il giorno successivo.

L’assistenza alla madre e al bambino era assicurata due volte al giorno per i primi cinque giorni e poi una volta al giorno per i dieci giorni successivi, principalmente per controllare il decorso fisiologico post-partum, fornire le istruzioni per l’allattamento e il cambio dei pannolini, per il controllo del peso e della medicazione del moncone del cordone ombelicale, e infine per il bagnetto.

Normalmente le donne erano molto attente a seguire le mie indicazioni e quindi molto rispettose del mio ruolo e della mia professionalità e le famiglie mi attendevano con una sorta di riverenza. Durante i periodi in cui ero ostetrica interinale (condotta) avevo dal Comune l’incarico di assistere tutti, al pari del medico condotto.

Dopo questo primo ventennio di libera professione, entrai in servizio all’Ospedale Civile di Ostiglia dove era stato istituito il reparto di Ostetricia e Ginecologia, precedentemente annesso al reparto di Chirurgia, diretto dal primario Salvatore Peru, specialista in ostetricia e ginecologia e già collaboratore del professor Giuseppe Piccinelli, direttore della Scuola di Ostetricia di Mantova, col supporto dall’aiuto Bice Ferrari Trombini.

Lavorare in ospedale, venne da me vissuto come un salto di qualità e con lo stesso entusiasmo dei primi tempi in Maternità a Verona, perché la presenza dell’ostetrica era richiesta anche in sala operatoria per i cesarei e gli interventi ginecologici.

Durante i primi anni di lavoro in ospedale, se il travaglio-parto era fisiologico, assistevo la gestante in autonomia, come fossi a casa, ricorrendo al medico solo nei casi di complicanze. Col passare degli anni e il mutare delle regole, la presenza del medico divenne prassi, così come, più avanti, quella del pediatra, ma ancora oggi mi salutano per la strada uomini e donne che ho aiutato a venire al mondo e che vedo sempre con grande gioia.

Bruna Basaglia Bianconi, ostetrica

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