Al Poma un ambulatorio dedicato che gestisce 600 casi all’anno, il nuovo trattamento per la profilassi ricorre agli anticorpi monoclonali
di Sara Musho Ilbeh, Anna Margherini, Erika Talassi, Alfonso Ciccone
La cefalea può certamente essere il primo sintomo di malattie pericolose come un ematoma intracranico, un tumore, una trombosi dei seni intracranici, un’arterite o un’ipotensione liquorale ma nella maggior parte dei casi la cefalea, fortunatamente, non dipende da altre patologie e non minaccia la vita. Il 90 per cento delle cefalee sono, infatti, cefalee primarie, legate a vari fattori quali personalità, umore, stress, ambiente, ciclo mestruale, alimentazione o disidratazione.
Le cefalee primarie colpiscono l’età giovane adulta, potendo insorgere nell’adolescenza o addirittura nell’infanzia, spesso hanno una discreta familiarità e alcune forme, rare, possono essere genetiche. Il primo compito del neurologo è distinguere queste forme primarie dalle forme secondarie, quelle che dipendono da specifici problemi cranici. Per farlo a volte sono necessari esami come la TC o la RM dell’encefalo; la radiografia del rachide cervicale è spesso un esame inutile, a meno che non ci sia uno specifico dolore del collo; può succedere che in situazioni specifiche siano invece dirimenti semplici esami del sangue o un eco-color-doppler dei tronchi sovra-aortici.
La cefalea primaria più comune è la cefalea tensiva, che colpisce il 20 per cento circa della popolazione con dolore lieve-moderato continuo, spesso esteso a tutto il cranio, a morsa o gravativo, senza nausea o vomito. La seconda forma più comune è l’emicrania, che colpisce circa il 15 per cento della popolazione ed è caratterizzata da attacchi di dolore pulsante, con nausea o vomito, fastidio alla luce o al rumore; il termine “emicrania” non deve ingannare perché la sindrome emicranica non implica che il dolore sia sempre lateralizzato ad un emi-cranio.
A volte l’emicrania si accompagna a sintomi neurologici che costituiscono l’aura emicranica: il più frequente consiste in disturbi visivi con luci a zig-zag o macchie scure, ma si possono verificare anche compromissione della forza e delle sensibilità e disturbi del linguaggio. Sebbene l’emicrania sia un po’ meno frequente della cefalea tensiva, viene vista molto più frequentemente dal neurologo a causa della sua maggior aggressività e per il fatto che a volte si accompagna a sintomi neurologici.
Un capitolo particolare occupano le cefalee autonomiche trigeminali di cui la più frequente è la cefalea a grappolo. Questa forma è caratterizzata da “grappoli” di attacchi molto intensi, della durata media di un’ora, che si ripetono puntualmente per un periodo variabile che di solito dura almeno un paio di settimane; i grappoli possono scomparire per mesi o addirittura per anni per ripresentarsi a distanza; questa forma, a differenza dell’emicrania e della cefalea tensiva, che colpiscono più frequentemente le donne, riguarda più spesso gli uomini.
Infine, una forma particolare di cefalea primaria è la nevralgia del trigemino. In questo caso il dolore è breve, a scossa elettrica, ma di intensità elevatissima e può essere scatenato dalla masticazione, dal contatto nella zona o semplicemente dal parlare. La nevralgia del trigemino è dovuta a un’irritazione del nervo trigemino che può essere determinata da situazioni diverse, come da un vaso che vi si appoggia (conflitto neuro-vascolare) o da un’infiammazione (placca demielinizzante), per cui il neurologo, quando ha questo sospetto diagnostico, chiede di solito accertamenti.
Le cefalee primarie, sebbene non pericolose per la vita, possono essere invalidanti, determinare assenze dal lavoro e alterare i rapporti sociali, per cui è importante il corretto inquadramento clinico, dal momento che ogni tipo di cefalea ha la sua terapia appropriata. Ci sono innanzitutto due approcci diversi: la terapia della fase acuta, che consiste nel somministrare un trattamento all’inizio della comparsa del dolore per tentare di interromperlo al suo nascere, e la terapia di profilassi, che invece consiste nell’assumere in maniera continuativa, anche quando la cefalea non è presente, un trattamento per prevenire che essa compaia. È ovvio che la strategia di profilassi, quindi il trattamento cronico, che ha lo scopo di evitare l’assunzione continua di farmaci per lenire il dolore, conviene solo alle persone che hanno molti attacchi. A volte, infatti, l’assunzione di farmaci è così frequente e la dipendenza da essi è così importante da configurare una situazione di cefalea cronica da abuso di antidolorifici.
Inoltre il trattamento delle cefalee primarie, proprio per le caratteristiche di personalità, di familiarità e di ambiente a cui abbiamo già fatto cenno, non è solo fatta di farmaci ma anche di modificazione dello stile di vita, di training autogeno e di psicoterapia comportamentale. I neurologi di Mantova vedono circa 600 casi di cefalea ogni anno. A causa del loro numero questi casi vengono valutati nell’ambulatorio del Centro Cefalee ma anche in ambulatori di neurologia non specificamente dedicati a questa patologia. Da diversi anni la nostra struttura offre la possibilità di trattamento dell’emicrania cronica con tossina botulinica e di terapia disintossicante per la cefalea cronica da abuso di farmaci; solo da un anno, invece, abbiamo la possibilità di utilizzare una nuova categoria di farmaci, gli anticorpi monoclonali, per la prevenzione dell’emicrania. A questi approcci si farà cenno nei seguenti paragrafi.
Prevenzione dell’emicrania con anticorpi monoclonali
Se i triptani sono stati una terapia rivoluzionaria nel trattamento dell’attacco emicranico negli anni ’90 del ‘900, gli anticorpi monoclonali (il cosiddetto “vaccino”) sono la rivoluzione della profilassi dell’emicrania negli anni ‘20 del nuovo millennio. Questi anticorpi legano il CGRP (peptide correlato al gene della calcitonina) o il recettore per il CGRP, molecola che sembra avere un ruolo chiave nello sviluppo dell’attacco emicranico: essa infatti viene espressa a livello dei neuroni sensoriali (nelle fibre C amieliniche e nelle fibre A-δ) favorendo i meccanismi di trasmissione del dolore.
Gli anticorpi monoclonali non sono un prodotto da assumere quando insorge un attacco acuto di cefalea, bensì di una terapia di profilassi, ossia mirata a ridurre frequenza, intensità e durata degli attacchi emicranici nel corso del tempo. Per tale motivo la loro somministrazione è mensile e la dose si inietta sottocute (ad esempio nella coscia) tramite una siringa preriempita di facile utilizzo, che consente anche al paziente di autoiniettarsi il farmaco.
Il punto di forza di questi farmaci risiede nella loro efficacia associata alla rapidità di azione e ad elevati livelli di sicurezza e tollerabilità. Ad oggi esiste comunque una percentuale di pazienti che non risponde al trattamento perché probabilmente in costoro il meccanismo eziopatogenetico che induce l’attacco emicranico è diverso da quello sostenuto dal CGRP. L’erogabilità del farmaco tramite il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) è subordinata ad una serie di norme restrittive e criteri di selezione, imposti dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), che il medico prescrittore deve rispettare rigorosamente in sede ambulatoriale durante il processo decisionale terapeutico: in particolare gli anticorpi monoclonali verranno prescritti solo a pazienti che abbiano presentato negli ultimi 3 mesi almeno 8 giorni di emicrania disabilitante al mese (definita come punteggio al questionario MIDAS≥11), che abbiano già tentato almeno tre classi di farmaci per la profilassi dell’emicrania, che non presentino controindicazioni quali ipertensione non controllata, angina instabile o infarto miocardico, TIA o ictus, eventi tromboembolici, recente bypass aorto-coronarico o altra procedura di rivascolarizzazione. Le reazioni avverse più comunemente segnalate non sono gravi e comprendono dolore nel sito di iniezione, vertigine, stipsi, prurito.
Trattamento dell’emicrania cronica con tossina botulinica
L’emicrania cronica si verifica in caso di crisi emicranica per almeno 15 giorni al mese per oltre 3 mesi consecutivi in assenza di abuso di farmaci antidolorifici. Solo per questa forma di emicrania negli anni 2010/2012 è stata approvata la terapia con tossina botulinica. L’emicrania episodica o altre forme di cefalea come la cefalea tensiva, invece, non possono essere trattate con la tossina botulina perché non vi sono sufficienti prove di efficacia. Il protocollo prevede che i casi vengano trattati ogni 3 mesi con inoculazione, mediante punture intramuscolo, di una specifica tossina botulinica in 31 siti muscolari cranici (frontali, temporali, occipitali, cervicali e così via). I pazienti sono chiamati a ripetere il trattamento ogni tre mesi. La profilassi con tossina botulinica, come tutte le profilassi dell’emicrania, ha l’obiettivo di diminuire significativamente il numero di giorni in cui l’emicrania si manifesta, la durata delle crisi, l’intensità del dolore e, conseguentemente, l’uso di farmaci per l’attacco. L’efficacia dopo la prima somministrazione è intorno al 50 per cento, mentre arriva al 90 per cento dei casi dal secondo trattamento in poi, mantenendosi costante nel tempo.
Spesso l’intervallo di benessere, continuando il trattamento, si allarga ed alcuni pazienti vengono chiamati non ogni 3, ma ogni 4 o 6 mesi a ripetere la terapia. I pazienti che hanno sperimentato un fallimento della terapia con tossina botulinica spesso non avevano ricevuto una corretta diagnosi iniziale di emicrania cronica. La terapia con tossina botulinica viene riservata, in accordo con i criteri di rimborsabilità del SSN, ai pazienti che hanno già utilizzato senza beneficio o non possono assumere per intolleranza, gli altri farmaci proposti dalle linee guida per la profilassi dell’emicrania cronica. I pazienti selezionati sono quindi quelli più complicati e resistenti ai farmaci. Malgrado la procedura sia invasiva rispetto alla normale assunzione di farmaci, ha il vantaggio di offrire una linea di trattamento alternativa a quella orale, mantenendo la possibilità di associazione ad altri farmaci sia per la profilassi che per l’attacco. Il meccanismo d’azione della tossina botulinica nell’emicrania cronica non ha direttamente a che fare con il rilassamento dei muscoli trattati, come si potrebbe erroneamente pensare, per cui tale terapia non è indicata nelle cefalee tensive o da contratture dei muscoli cervicali. Date queste limitazioni nelle indicazioni all’ambulatorio per la terapia con tossina botulinica, accetta esclusivamente casi selezionati da specialisti neurologi dello staff del Centro Cefalee e non esiste un accesso CUP diretto da parte del Medico di Medicina Generale.
La terapia disintossicante
Come accennato a proposito delle cefalee primarie, a volte l’assunzione di antidolorifici per gli attacchi è così frequente e la dipendenza da essi è così importante, da configurare una situazione di cefalea cronica provocata proprio dall’uso eccessivo di antidolorifici (chiamata con l’acronimo MOH dall’inglese Medication-Overuse Headache). Questa cefalea è il terzo tipo più frequente nella popolazione generale (1-1.4 per cento) e rappresenta un importante problema di salute in tutto il mondo: può limitare in modo significativo le attività sociali e lavorative dei pazienti, può avere effetti dannosi su vari organi provocati dai farmaci di cui si abusa ed è difficile da trattare.
In linea di principio tutti i farmaci utilizzati per il trattamento acuto della cefalea possono causare MOH (triptani, antinfiammatori, oppiodi, ergotaminici, barbiturici, caffeina, bezodiazepine e così via) quando la loro assunzione risulta eccessiva e regolare per più di tre mesi consecutivi (per esempio triptani per più di 10 giorni al mese, oppure antinfiammatori comuni per più di 15 giorni al mese). Per la cura di questi casi è indispensabile sospendere completamente l’assunzione degli abituali antidolorifici altrimenti non si otterrà mai l’interruzione del circolo vizioso che sottende questo tipo di cefalea. La disintossicazione non è facile poiché la sospensione dei farmaci abusati in genere provoca l’insorgenza di forti attacchi di cefalea di rimbalzo; è possibile aiutare i pazienti nella disintossicazione tramite una terapia cortisonica, che può essere assunta per a domicilio, oppure per via endovenosa in regime ambulaotoriale associata ad abbondante idratazione, eventuali antiemetici in caso di vomito, eventuali benzodiazepine in caso di agitazione, ansia, insonnia.
Contemporaneamente alla disintossicazione verrà intrapresa una terapia di prevenzione a lungo termine per evitare la ricaduta nella cefalea cronica una volta terminata la terapia cortisonica. Inoltre potrebbe essere consigliata una consulenza psicologica sia al fine di ottenere un profilo psicologico di base sia al fine di iniziare, se il paziente lo accetta, una psicoterapia di appoggio (terapia comportamentale, tecniche di rilassamento); è stato infatti riscontrato che nei paziente con cefalea cronica da uso eccessivo di farmaci sintomatici vi è una più elevata prevalenza di disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi associati all’uso di sostanze psicoattive, disturbo ossessivo-compulsivo subclinico, disturbo della personalità, storia familiare di disordini legati all’abuso di sostanze.
L’approccio psicologico
Il neurologo del Centro Cefalee si può avvalere dell’aiuto dello psicologo e, in alcuni casi, come nella cefalea cronica da abuso di farmaci, con il consenso della persona, lo fa di prassi. Ci sono situazioni particolarmente resistenti ai trattamenti farmacologici, in cui affiancare alla terapia medica il supporto psicologico può aiutare il soggetto a dare un significato anche emotivo alla cefalea e alla sua esistenza, che spesso va ben oltre il disturbo fisico. I pazienti che soffrono di cefalea lamentano di sentire dolore ma l’antidoto, l’antidolorifico, è un trattamento sintomatico che non arriva al nocciolo del significato doloroso.
Il dolore, nella visione psicosomatica e psicoanalitica, è un segnale che va ascoltato: è il corpo che parla e che può esprimere un conflitto psicologico inconscio che, per varie ragioni, viene represso. Il mal di testa, infatti, può diventare l’espressione di un disagio e il modo per non prenderne coscienza: spesso infatti la cefalea costringe a stare al buio e con gli occhi chiusi e ad interrompere attività cognitive come il pensiero e l’immaginazione. Anche per questo motivo, fra i farmaci che vengono proposti per la profilassi dell’emicrania e della cefalea tensiva, vi sono anche degli antidepressivi e degli stabilizzatori dell’umore.
Il percorso psicologico può non essere semplice, perché la persona con cefalea tende raramente ad accettare questo tipo di aiuto, in quanto percepisce il proprio problema come principalmente corporeo, tanto è vero che non di rado si stupisce che gli esami a cui viene sottoposto non mostrino nulla di rilevante e si sente trascurato se gli esami non vengono fatti. Nell’approccio psicologico, che può affiancare efficacemente la terapia medica, si accompagna quindi il paziente a riconoscere al sintomo doloroso la sua dimensione comunicativa di un disagio psichico più profondo, che è stato represso.
Sara Musho Ilbeh, Anna Magherini, Erika Talassi sono neurologi struttura Neurologia ASST Mantova; Alfonso Ciccone è il direttore struttura Neurologia ASST Mantova