Parola alla Croce Rossa

Riportiamo le testimonianza di alcuni volontari della Croce Rossa impegnati nell’emergenza.

L’agitazione e lo stupore di un autista soccorritore

Posso raccontarvi la mia prima esperienza con lo stazionamento del 118 in supporto a Lodi, per le zone rosse di Codogno, Casalpusterlengo, Somaglia. La nostra AAT di Mantova ha richiesto a Croce Rossa un mezzo di emergenza urgenza e un autista soccorritore per operare con l’infermiere della AAT a Lodi. Essendo la prima volta, sia per me che per l’infermiera, è stato piuttosto caotico questo, probabilmente perché si trattava di zona rossa e che a Mantova ancora non c’era. Anche dovuto a un nuovo servizio per entrambi e perché non avevamo molte informazioni relative al servizio vero e proprio.
Allaccio del cavo, password della porta di entrata, fino alla prima chiamata in giallo e alla vestizione sono alcune delle azioni che hanno determinato in me emozioni: agitazione, stupore e curiosità. Tant’è che una volta sigillata la tutta ho dimenticato nei pantaloni della divisa la chiave dell’ambulanza. Di conseguenza ho dovuto vestirmi una seconda volta.
Superato l’impatto iniziale sono riuscito a orientarmi con un’ottica da soccorritore 118, anche se è stato molto difficile.

Rzouzi Achraf

Emozioni e conflitti interni indescrivibili

La mia esperienza è legata al servizio emergenza-urgenza; ogni volta che la chiamata è per un paziente colpito da Covid la tensione sale e anche il coinvolgimento psicologico non scherza. Già affrontare la vestizione in maniera accurata per proteggerci ti toglie il fiato, perché mentre cerchi di concentrare la tua attenzione su questa operazione, pensi al paziente che sai già essere spaventato sia per la sua sintomatologia che per il tam tam mediatico al quale quotidianamente è sottoposto.
Ok sono pronta… devo essere chiara e incisiva con il mio equipaggio… ne sono responsabile… “l’approccio al paziente è mio, rimanete pronti in merito a quanto vi dico. Ok possiamo andare, il tragitto impegna la mente e in genere il viaggio è silenzioso, rimarcare all’equipaggio: non siate impulsivi, non si scherza, è una brutta bestia e aspetta il primo di noi che fa il fesso”!

Già il fatto di entrare da sola in una casa che non si conosce è provante, entrare con la certezza che troverai sì una persona che sta male, ma non sai quanto è pesante. Arrivo in affanno perché magari ho portato lo zaino che pesa più di me e ho fatto 3 piani di scale, ansimante cerco di prendere fiato attraverso una maschera che poco lascia passare e così anche gli occhiali si appannano. Che situazione!
Arrivata al paziente la prima cosa è il terrore che scorgi dal suo sguardo, noi siamo abituati a rassicurare le persone con un sorriso, ma la maschera non me lo permette…provo a sorridere con gli occhi cercando ingenuamente di dare un segno di speranza.

È straziante anche dover convincere i famigliari a non seguirci in Pronto Soccorso, di non esporsi. Straziante perché si ha la convinzione che stai portando via un pezzo della loro vita che non sai se potranno rivedersi e non puoi farti prendere dall’emozione, non puoi permetterti la lacrima e così via col magone…15 anni di esperienza in emergenza urgenza, ma le emozioni e i conflitti interni che questo maledetto virus causa sono indescrivibili.

Anna

Due volontari della Croce Rossa davanti al Pronto Soccorso del Poma

Marito e moglie che si guardano e non sanno come dirsi ciao

Ricordo con fermezza la prima uscita che ho fatto su un sospetto covid-19. L’epidemia sembrava lontana, sembrava non toccarci e i pensieri meno razionali fomentavano la speranza che noi fossimo stati in un qualche modo graziati. “Ma si, qui non arriva”, una frase che ho sentito così tante volte e che così tante volte mi sono ripetuta; alla fine poi arrivi un po’ a crederci.

E allora protetti dallo scudo della speranza e da una mascherina FFP2 usciamo sui nostri interventi in emergenza, uno dietro l’altro, e sembra tutto normale, con i visi più nascosti del solito, ma con la grinta e la passione di sempre. Niente di cui preoccuparsi, l’epidemia è lontana.

Poi quasi impercettibile tra le altre arriva quella chiamata, non aveva niente di diverso, non ci ha spaventati. Arriviamo in questa casa, entro da sola e mi bastano due domande, le domande che ormai ho imparato a fare a memoria, per capire che quello non sarebbe stato un intervento normale.

Lascio il mio equipaggio fuori dalla stanza, metto la mascherina al paziente e mi allontano per mettere in pratica tutti i protocolli di vestizione.

Mentre mi allontano vedo questo paziente li, attonito, incredulo, stretto nella morsa della solitudine.

Mi guarda confuso, non capisce perché me ne vado, non capisce.

Torno dopo poco, vi tutta imbacuccata nei miei DPI che mi rendono sicuramente irriconoscibile, e il suo viso è cambiato, non è più confuso, ha capito. Cerca di fare l’impassibile, fa il duro, va avanti a raccontarmi, ma le sue mani tremano.

Fuori dalla porta la moglie malata di una malattia grave, ci guarda attorno al letto del marito incredula, ha paura, paura per lui e paura per sé. Si stringe la mascherina alla faccia come se fosse un appiglio, un appiglio perché qualcosa dentro lei sta crollando. Vado a parlarle. Vorrebbe conforto, vorrebbe una stretta di mano, vorrebbe il calore di un contatto umano, calore che non posso darle.

Mi si spezza il cuore e dentro tutte quelle protezioni mi sento inutile. Siamo pronti per andare via.

Ed eccoli che si incrociano. Li guardo salutarsi impacciati, marito e moglie da una vita, che non sanno come dirsi ciao. È stato in quel momento che ho capito che l’epidemia non era più lontana.

Un volontario della Croce Rossa
Nessun commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato.

Archivi
Categorie
Iscriviti alla newsletter