Il virus ci ha messo in ginocchio

Ho sentito ripetere più volte in questi giorni che il virus “ci ha messo in ginocchio”. C’è modo e modo di assumere questa postura e di intendere questa espressione, anche di questi tempi. C’è l’immagine dell’infermiere fotografato in ginocchio e con la testa tra le mani, abbattuto per l’ennesimo morto del suo reparto, simbolica di un’empatia capace di accollarsi, con professionalità, gli oneri di una situazione di gravità sproporzionata, ma senza ostentare eroismi. C’è poi l’interpretazione, comprensibile da parte di politici, economisti e imprenditori, per dare la misura dei danni causati da questo virus che ha spezzato le gambe a un’economia già infiacchita. Ed è anche vero che per non farci mancare le esperienze più sacre della vita, quali gli atti di pietà verso i defunti e le espressioni di cordoglio verso chi li piange, dobbiamo metterci in ginocchio e dare a questo gesto tutta la pregnanza spirituale che gli è propria. Un amico mi ha scritto la sua tristezza per la morte di una donna con una forte fede in Cristo: “Il Signore – dice – l’avrà accolta accanto a sé perché è andato in cielo con l’impegno di dare un posto di felicità a chi ha creduto in Lui”. La sua tristezza, però, è mista all’amarezza, perché questa donna non ha potuto essere accompagnata al cimitero: “Stramaledetto virus, che ha impedito nell’attimo straziante in cui una persona cara viene calata nella fossa, che parenti e amici potessero stringersi in un unico abbraccio di confortante solidarietà”. Mettersi in ginocchio vuol dire piegare in due il corpo, rimpicciolirsi piuttosto che ergersi, abbassarsi accettando che l’uomo è imparentato con la polvere.

C’è infine l’aspettativa di qualche furbo senza scrupoli che vorrà approfittare della posizione scomoda di chi è davvero in ginocchio per avvantaggiare sé stesso, osando chiedere risorse o aiuti di cui non necessita veramente oppure approfittando e lucrando sui bisogni altrui. Proprio in ore come queste si distinguono le coscienze formate alla cittadinanza responsabile e alla virtù dell’onestà rispetto a quanti pensano esclusivamente al proprio interesse. Nelle epoche imperiali e ancora in quelle cavalleresche, i vassalli si mettevano in ginocchio davanti ai signori, ai padroni, ai superiori. Il principio democratico dell’era moderna ha affermato – anche a prezzo di dure battaglie – la pari dignità di valore tra i sessi, le classi sociali, i gruppi etnici. Sono conquiste importanti eppure mai definitivamente acquisite. L’intento di sopprimere ogni forma di razzismo, servilismo, disuguaglianza, privilegi che creano solchi e steccati sociali, è certamente positivo; ma se porta con sé un livellamento generale verso il basso, cioè a misura di quanto all’individuo egoisticamente pare necessario, non è né giusto, né vantaggioso per la crescita della civiltà. Alla vitalità culturale, politica ed economica di un popolo, infatti, servono anche le élites creative. Si è visto, in questo periodo, un sostegno unanime alla categoria dei medici quando, a molti di loro, negli ultimi anni, si faticava a riconoscere una vera autorità anche su questioni più semplici (ad esempio quella dei vaccini) o si rinfacciava una scarsa serietà professionale, cosa che li ha portati a mettere in atto meccanismi di autotutela verso i pazienti, per evitare recriminazioni per errori, accuse e conseguenti danni penali. Attualmente i medici rappresentano un “campione di umanità” a cui il mondo guarda con stima e gratitudine. Qualcosa di simile sarebbe auspicabile anche per la classe politica e dirigente. Abbiamo capito quanto sia necessaria al Paese una leadership che sappia interpretare il bene comune e “dettare” una disciplina sociale, accettabile dai cittadini non per paura, ma in spirito di responsabilità, al fine di salvaguardare il bene proprio e rispettare quello altrui. Forse la situazione che ci ha messo “in ginocchio” potrebbe, paradossalmente, rappresentare uno stimolo a rimettere “in piedi” una politica capace di affrontare le sfide future abbandonando le impostazioni del passato. Forse, con un autentico spirito democratico, si potrà tornare a riconoscere, in alcuni cittadini, la presenza di qualità, attitudini e talenti di notevole calibro unita alla disponibilità ad impegnarli per il bene comune. E questo non per imporre una superiorità a proprio vantaggio, ma ponendola a servizio di tutti; senza destare l’invidia sociale, ma stimolando ammirazione e fiducia. Nonostante le apparenze, la società crede ancora al valore di assegnare ruoli importanti a persone intelligenti e preparate. Si avverte che la competenza è più sicura dell’improvvisazione e della competizione, le quali, in definitiva, non sono altro che una forma di prepotenza. Crediamo nella possibilità di un potere buono e lo vogliamo riconoscere e affidare a persone oneste, preparate e capaci che “meritano” di diventare le nostre guide. Il sospetto verso le élites può, dunque, essere superato con un atto di fiducia e di speranza: il nostro futuro sarà buono nella misura in cui seguiremo le indicazioni di qualcuno che la sa più lunga di noi, che decide per noi con l’obiettivo di procurare il meglio per la convivenza civile. Certamente questo “qualcuno” dovrà saper mostrare non solo di possedere qualità morali e professionali, ma anche di ottenere il rispetto e l’assenso della comunità. Apprezzare le doti “speciali” di alcune persone non deve però riportare al “culto dello specialista” tipico della mentalità del ‘900, che apprezzava l’intervento di chi, dopo una vita di studi, dava garanzie di sicurezza perché ritenuto preparatissimo sulla materia. L’intelligenza che oggi, invece, si vuole privilegiare è quella del lavoro di squadra che mette insieme creatività e competenze diverse per affrontare criticità di vario genere. Anche questa trasformazione del modo di gestire i processi, meno individuale e più in rete, merita attenzione perché servirà a far fronte ad un altro prezzo altissimo pagato alla pandemia: la perdita di molti anziani e, con loro, di parte del tessuto sociale e culturale della nostra storia recente. Nell’arco di due mesi, in Lombardia, ci siamo impoveriti di quella generazione pilota che ha risollevato il Paese piegato sotto i colpi della seconda guerra mondiale e che ancora rappresentava un capitale narrativo di memoria in grado di ricordarci quanto la fatica e la speranza sono necessarie per rialzarsi dalla prova.

Allora, se il virus ci ha messo in ginocchio non dimentichiamo che, nell’esperienza religiosa, inginocchiarsi è la via per elevarsi; un passaggio, a volte necessario, per rialzarsi in piedi da terra, non per ostentare fierezza, ma mossi da una nuova percezione della dignità umana. L’uomo che non è messo in ginocchio forzatamente dai fatti, ma che decide da sé stesso di mettersi in ginocchio, è l’uomo che sente più forte la responsabilità di ricominciare a camminare dopo le prove e le sconfitte. Mentre il corpo si piega a metà anche il capo si curva e si indirizza verso il luogo del cuore, non per chiudersi su sé stesso, ma per raccogliersi in quel nucleo profondo in cui l’io si apre su Dio. Il verbo “risuscitare”, nella lingua greca dei Vangeli, significa proprio rialzarsi. Il Venerdì santo la Croce ha fermato il tempo e come immobilizzato l’umanità: di fronte ad essa, come a tutte le croci del dolore umano, ci inginocchiamo con rispetto e devozione. Al mattino di Pasqua tutto improvvisamente si rianima: donne e uomini si alzano e corrono al sepolcro e lo trovano vuoto. Il Vivente è già sulla strada di Emmaus a consolare due sfiduciati. Rimettere in cammino l’umanità è “il mestiere preferito” del Risorto. Se è fuori discussione che il Covid-19 ci ha messo in ginocchio, è altrettanto sicuro che il Signore Gesù è già con noi su una strada di ripresa e di speranza.

Marco Busca è il Vescovo della Diocesi di Mantova dal 2016. Ha conseguito la laurea in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana (2000) con una tesi incentrata sul Sacramento della Riconciliazione.

 

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