Riportiamo e pubblichiamo il racconto di Daniela Pasquali, operatrice Urp di Asst Mantova, vincitrice del premio premio letterario ‘L’identità degli individui e della collettività’. Il testo parla della storia di due identità in evoluzione, quella di un’infermiera (l’autrice) e di una paziente particolarmente difficile in occasione del passaggio dal manicomio alle comunità protette. Il racconto è pubblicato sull’antologia del premio istituito dal Gruppo italiano felicità e salute positiva.
Quella paziente io e i miei colleghi la conoscevamo bene tutti, ed era noto che dovevamo guardarci alle spalle ed evitare di avvicinarci troppo a lei, per prevenire di essere aggrediti all’improvviso, senza nessun segno di preavviso e in assenza di un’evidente ragione. Questo era il consiglio che da anni gli anziani dell’equipe curante elargiva agli infermieri neoassunti o di poca esperienza in ambito psichiatrico, per non incorrere in una situazione di pericolo. Da tempo lavoravo nell’impossibilità di potermi avvicinare a lei per paura, ignoranza e incapacità di mettere in discussione le mie poche certezze. Tuttavia quella persona, Silvana si chiamava, stranamente mi incuriosiva, mi attirava a sé come una calamita, come se avessi dovuto ricercare in lei qualcosa di famigliare a me sconosciuto e perduto nel tempo.
La comunità era abitata da nove persone, pazienti provenienti dall’ospedale psichiatrico chiuso l’anno prima e con lei, a debita distanza di sicurezza, frequentemente mi soffermavo a parlare sul pianerottolo delle bianche, linde e fredde scale di marmo adiacenti alla sua stanzetta, altre volte nel giardino ben curato di fronte alla casa, o lungo i corridoi. Le consideravo modalità utili a entrare in relazione con lei, tentando ogni volta di provare a ridurre la distanza che ci divideva e colmare quel vuoto e senso di inutilità che percepivo nei giorni in cui stava particolarmente male, sentendomi inetta per il ruolo che svolgevo. Spesso parlava a ruota libera della sua tragica e strana vita, emettendo una miriade di vocaboli impastati con suoni striduli, soprattutto durante la mia presenza nei turni notturni. Io la osservavo ammirata, ma impaurita in egual modo, provando a cogliere il più imprevedibile gesto che mi facesse capire che avrei potuto avvicinarmi fisicamente a lei, anche solo per qualche millimetro alla volta, per tentare di ridurre la distanza che ci separava.
Il suo aspetto era goffo, quasi sgraziato, il suo vocione penetrante incorniciava un viso scavato dalla sofferenza di una vita, la sua bocca sdentata emanava parole alternate a risate fragorose che allargavano le narici di un naso deviato forse dalle violenze subite nel passato e questa immagine si rifletteva e rimbombava giornalmente tra le pareti della guardiola. Mentre pronunciava discorsi accompagnati da gesti disarticolati, le guardavo le mani piccole e deformate, impreziosite da vistosi anelli d’oro che le donavano una parvenza di femminilità; mani che sempre stringevano due o tre pacchetti di sigarette rigorosamente MS e un paio di accendini, come se fossero per lei un’ arma di difesa o un appiglio per superare l’ angoscia che spesse volte l’assaliva all’improvviso. E che dire dei suoi enormi e rotondi seni che metteva in risalto coprendoli con degli striminziti ma graziosi reggiseno in pizzo, preferibilmente di color bianco o in alternativa nero, e delle mutandine che non riuscivano a coprire un corpo, dalla pelle chiara, ormai sciupato. Indumenti che le regalavano sembianze di normalità.
Il mio sguardo si soffermava maggiormente nello scrutare l’intensità, la profondità e l’angoscia che traspariva dai suoi occhi verde mare tempesta, dal suo volto scavato, dalle sue espressioni, dai suoi movimenti, dalle sue risate, dalla sua voce, quando tentava attraverso i racconti dei suoi vissuti interiori di farsi capire, di farsi ascoltare, di farsi accettare per come realmente si presentava. Non riusciva ad essere altro da quello che era e questo aspetto, faceva paura anche a lei.
Quell’estate il clima era particolarmente torrido e anche gli ospiti della comunità, quando arrivava la sera, con estrema difficoltà riuscivano a prendere sonno se non entrando ed uscendo continuamente dalla doccia per rinfrescarsi. Anche lei in quel periodo era più agitata ed aggressiva del solito, sia nei confronti dei compagni, che degli operatori, tanto che nemmeno la massiccia dose di terapia farmacologica che assumeva giornalmente, le aveva giovato.
Di notte con estrema e penosa fatica si addormentava, scaricando prima la sua ira verso la donna con la quale condivideva la stanza, che a sua volta reagiva con improperi e gesti inconsulti nei confronti di cose e oggetti.
Durante la giornata invece, era un continuo far richieste al personale in servizio che temeva, da un momento all’altro, lo scatenarsi di un suo comportamento aggressivo rivolto a qualche paziente o nella peggiore delle ipotesi a noi sanitari che nel turno di notte eravamo presenti come unica unità a gestire l’assistenza.
Quella notte il collega al quale avevo dato il cambio turno, mi aveva messo al corrente degli avvenimenti accorsi durante il giorno, raccomandandomi con solerzia di non avvicinarmi alla paziente evitando di soffermarmi a parlare con lei, com’era mia abitudine fare durante il turno notturno, per prevenire episodi spiacevoli e soprattutto per preservare la mia incolumità psicofisica. Effettivamente nel corso delle ore serali il lavoro fu particolarmente faticoso perché con tutta la santa pazienza e professionalità che avevo messo in atto, non ero stata in grado di rispondere alle sue continue lamentele e richieste di aiuto che si facevano man mano, sempre più pressanti e difficili da gestire. Il caldo era insopportabile e nemmeno il piccolo e rumoroso ventilatore di un anonimo colore grigio posto all’angolo della scrivania, era riuscito a concedermi un minimo di sollievo e di tregua.
E lei?
Lei prima aveva voluto parlarmi, poi aveva litigato col vicino di stanza, poi con la compagna, poi stava male e voleva la terapia al bisogno con più farmaco, poi piangeva perché aveva caldo, in piena notte si era rinfrescata sotto la doccia ripetutamente ma la calura e l’umidità la facevano sudare e si sentiva sudicia, poi imprecava che facessi qualcosa per lei, poi mi chiamava in continuazione con preghiera di aiutarla, poi avrebbe voluto morire perché io non la capivo…utilizzando sempre la stessa voce stridula e lamentosa che rimbombava nelle orecchie e nella mente.
Quella volta, se avessi potuto, l’avrei soffocata con le mie stesse mani, per non sentirle ripetere in continuazione il mio nome: “Teresa aiuto, Teresa sto male, Teresa fai qualcosa per me, Teresa, Teresa, Teresa…
Esasperata dalle continue richieste, decisi di salire nella sua stanza, anche perché per le sue continue lamentele, gli ospiti della comunità si erano più volte svegliati chiedendomi di intervenire al più presto per risolvere il problema. A quel punto la situazione era diventata insostenibile ed era mio compito garantire la serenità degli altri ospiti.
Salii le scale decisa ad intervenire e con un filo di voce le chiesi il permesso di entrare nella sua camera, informandola che volevo capire cosa in realtà la disturbasse. Le avevo somministrato i farmaci al bisogno come da terapia, l’avevo ascoltata, le avevo portato il ghiaccio e l’acqua fresca, i ventilatori funzionavano alla massima potenza, si era fatta ripetute docce in piena notte, di cosa altro aveva bisogno?
Si mise a piangere e a singhiozzare ripetendomi urlando che stava molto male, ma non ne comprendeva il motivo. E questo aspetto la faceva soffrire ancora di più. Era fatta così e non poteva farci nulla. Erano anni che provava a cambiare, ma con esito negativo.
Con le mani appoggiate sullo stipite della porta a pochi metri da lei, osservavo il suo profilo di piccola donna rannicchiata verso il flebile chiarore del quarto di luna che si intravedeva dalla porta finestra aperta sul balcone. Luna che la illuminava come un oggetto prezioso da custodire. Singhiozzando in continuazione ripeteva che stava male, ma nello stesso tempo mi informava di starle lontano perché aveva paura di aggredirmi. Continuavo a guardarla distesa sul letto, ora intenta a contorcersi e in altri momenti ferma e rigida come un pezzo di ferro che aspetta una mano calda per prendere forma.
Il bagliore lunare attraverso il quale si definivano i suoi contorni mi invitò ad afferrare quell’attimo al volo: o in quel momento o mai più!
Le chiesi di potermi avvicinare
Non mi rispose, continuava a piangere.
Passo dopo passo mi sedetti in un angolo del letto di fianco al suo, occupato dalla compagna che mi invitava a lasciarla stare, per timore che venissi aggredita.
Non l’ascoltai.
Il mio respiro si era fatto più corto, il cuore batteva come non mai, l’odore del sudore si era mescolato con le tonnellate di profumo che Silvana aveva usato in precedenza e alcune cicale facevano notare la loro presenza, sugli alberi del giardino adiacente alla casa alloggio. Allungai la mano per toccarla, le accarezzai i piedi, chiedendole prima il permesso.
Non rispose.
Le accarezzai le gambe secche per la magrezza e la pelle screpolata per le ripetute docce giornaliere.
Non si oppose al contatto.
Allungai la mano sulla spalla e le chiesi per l’ennesima volta il consenso senza ricevere alcuna risposta. Percepii allora che era giunto il momento per osare, per oltrepassare i limiti, la zona di sicurezza, per tentare un approccio fisico, quel contatto pelle a pelle, corpo a corpo che non ero ancora riuscita a sperimentare e che col senno di poi, avrebbe consentito a entrambe di percorrere nuove strade, sino ad ora imbattute.
Con timore mi avvicinai sempre di più a lei e anche quando il palmo sudato e tremante della mia mano si posò sulla sua cute umida, per istinto ebbi l’irrefrenabile desiderio di accarezzarla.
Così fu.
Lentamente e in silenzio mi accostai e le toccai le guance bagnate dalle lacrime, sino a sfiorarle i lunghi ondulati capelli color giallo paglierino, resi crespi dai continui e ripetuti lavaggi quotidiani. La sua pelle era morbida e liscia a tal punto che in quel momento, come un ritorno al passato, ricordai le sensazioni che sperimentavo da piccola nell’avvicinarmi fisicamente alla nonna che mi aveva accudito da quando ero nata.
E lei?
Lei immobile non parlava, non si lamentava, non singhiozzava, ascoltava e sentiva me che in quel momento la stavo cullando, gesto accompagnato dall’intonazione di una filastrocca che cantavo ai miei figli per farli addormentare, riuscendo finalmente nel mio intento.
“Ninna nanna, ninna oh, questa bambina a chi la do, la darò alla sua mamma che le canta la ninna nanna…”
Guardai dalla porta finestra il quarto di luna che in quel momento era parzialmente ricoperto da una nuvoletta di passaggio, le cicale all’improvviso si erano acquietate; anche la canicola estiva si era attenuata nella sua prepotenza e tutt’intorno regnava un silenzio irreale. Dopo alcuni minuti, con il cuore gonfio, mi scostai da lei, socchiusi la porta della sua camera e scesi con passi felpati dalle scale, per ritrovarmi successivamente in guardiola ripensando agli attimi che avevo vissuto.
Mi sentivo letteralmente sbalordita e non capivo cosa fosse accaduto, in quella stanza, in una manciata eterna di qualche minuto; ripercorrevo con la mente ogni istante cercando di trovare una spiegazione logica e razionale senza riuscirci, alimentando quel senso di angoscia che come un vortice si stava impossessando di me.
Da qualche mese stavo frequentando a Milano con colleghi medici, psicologi ed educatori, un corso per apprendere nuove metodologie educative e riabilitative da applicare a pazienti a lungo istituzionalizzati, e la tesi che volevo preparare era indirizzata principalmente alla riabilitazione psicosociale dei pazienti psichiatrici. Avevo letto in merito testi ed articoli scientifici inerenti le tematiche riabilitative, ai costrutti e ai modelli concettuali che supportavano i diversi approcci teorici e i relativi campi di applicazione, ma ciò che avevo intensamente sperimentato, non riuscivo a collocarlo e a dargli un nome, pur avendo un barlume di conoscenza, se pur limitata. L’unica certezza che avevo, era che in quel momento a stare male, senza conoscerne il motivo, ero io, mentre lei si stava finalmente riposando, lasciando tranquilli anche i muri di quella casa. Pensavo e ripensavo ai discorsi forbiti delle competenze e professionalità dell’infermiere, dell’etica, della deontologia, alle interessanti definizioni del curare in contrapposizione col prendersi cura, alle evidenze scientifiche, alle ricerche, alle statistiche, ai convegni, ai corsi di aggiornamento sulle pratiche di buona cura che mi facilitavano nel progettare percorsi educativi e riabilitativi. Tuttavia mi trovavo nell’impossibilità di dare un nome, un senso e un significato a ciò che era successo in quella calda notte di mezza estate. Di quali comportamenti o azioni deontologicamente e professionalmente poco corretti mi ero resa colpevole, se pur inconsapevolmente? Forse tutti i bei discorsi che avevo sentito, che avevo letto, le parole che avevo speso, le conversazioni che avevo fatto, le convinzioni e i castelli che mi ero costruita, in quel momenti li sentivo come altro da me. Come se le competenze, conoscenze ed abilità acquisite sino ad allora, non fossero altro che un’illusione, un miraggio, altro da come volevo essere.
A un tratto mi sono trovata nella condizione di fare i conti con me stessa, col mio essere donna, madre, figlia, nipote, professionista, con la mia capacità di donarmi gratuitamente, incondizionatamente, senza pregiudizi, senza difese, nella mia nuda e cruda essenza. Mi ero resa colpevole di aver toccato, accarezzato, cullato e amato quella paziente così odiata e mal sopportata un po’ da tutti, me compresa, come se fosse stata una bimba piccola da accudire, da proteggere. Avevo finalmente ascoltato e risposto alla sua chiamata, avevo avuto cura di lei in quel contesto, in quel frangente, in quella particolare situazione, utilizzando modalità diverse, sconosciute, strumenti inconsueti, come nessuno di noi operatori aveva mai pensato e osato usare, o semplicemente perché non ne eravamo a conoscenza o in grado di fare.
Ero riuscita a far emergere un lato inaspettato di me, forse negato, oppresso, nascosto e taciuto. Altro non era che la chiave per aprire quell’unico pertugio che avrebbe portato entrambe, i giorni a venire, a percorrere insieme i sentieri tortuosi e scoscesi verso la libertà.
Dal cambio turno del mattino, raccontai, visibilmente scossa, l’accaduto ai colleghi più anziani ed esperti di me i quali mi rimproverarono per l’incoscienza e imprudenza e per il rischio che avevo corso avvicinandomi troppo ad una paziente considerata, per quasi tutti, pericolosa. In pochi tentarono, non vollero o si rifiutarono di comprendere cosa fosse accaduto quella torrida notte d’estate tra me e quella donna, ma io sapevo che l’indomani tra noi due il rapporto avrebbe assunto connotati diversi. Da allora si fidò di me e io mi presi cura di lei assumendomi la responsabilità di accompagnarla nei mesi successivi, tenendola per mano, sorreggendola nelle cadute, verso la scoperta di quei sentieri inesplorati da tempo immemore. Percorsi selvaggi e tortuosi costellati da una miriade di ostacoli e difficoltà che ci hanno poi permesso di oltrepassare le certezze e le apparenze costruite dall’ottusità dell’ utilizzo della sola razionalità.
Di Daniela Pasquali, operatrice Urp Asst Mantova
Complimenti a Daniela per questo racconto e per aver condiviso le innumerevoli emozioni vissute da lei in quella notte così particolare. Complimenti per avere descritto e cercato di esternare qualcosa che forse era difficile da comprendere anche da parte sua.
Il contatto fisico, pelle contro pelle, purtroppo non è mai stato considerato un rapporto propriamente professionale ma anche secondo la mia lunga esperienza può donare sensazioni positive sia al paziente ma soprattutto a noi se viene vissuto come momento di cura e di presa in carico .
Grazie Daniela.
Sabrina Zaccagni
veramente bello ciò che è avvenuto tra voi ,grazie per le parole potenti di questo racconto. Grazia
HO LETTO CON INTERESSE IL RACCONTO DI DANIELA PASQUALI.EMOZIINABTE, RICCO DI SPUNTI DI RIFLESSIONE. COMPLIMENTI ALL’AUTRICE! DAVVERO BRAVA