Verso il IX secolo il termine bizantino ‘xenodochia’ lascia il posto a quello di ‘hospitale’

Pur rientrando fra le ‘opere pietas’, l’ospedale poteva essere gestito anche da personale laico: era il luogo del ristoro per ospitare e nutrire

Continua il viaggio nel passato, a partire dalla cultura greca, che prevedeva la guarigione solo grazie all’intervento divino 

In questo e nei prossimi numeri della rubrica ‘Come eravamo’, racconteremo la storia della sanità del Destra Secchia, pubblicando testi tratti dal libro ‘Antichi ospedali nel Destra Secchia dell’Oltrepò mantovano’, di Raffaele Ghirardi (2018, Publipaolini editore), cultore di storia e responsabile delle Attività di cure sub acute dell’ospedale di Borgo Mantovano. Il passato ci aiuta a capire il presente e a costruire il futuro. 

La figura del pellegrino, espressione dell’“Homo viator”, che viveva in povertà e sovente infermo, agli occhi della cristianità costituiva una figura densa di riferimenti valoriali. Il suo viaggio verso il luogo santo costituiva una allegoria del percorso dell’uomo attraverso la vita terrena per raggiungere la sua originaria meta che era la congiunzione con Cristo. Il dovere di sollevarlo dalle sue pene e di preservarlo dai rischi nel suo lungo cammino, come per esempio l’insidia dei briganti, era, per un cristiano che volesse acquisire merito, assoluto, specie per il religioso. In effetti gli Xenodochia si situarono, nell’Occidente cristiano, lungo le antiche vie consolari, un tempo percorse in modo centrifugo dalle legioni romane per conquistare il mondo e successivamente, in modo centripeto, dai pellegrini diretti in Italia, verso i luoghi santi.

Verso il IX secolo il termine Xenodochia, di origine bizantina, lasciava il posto a quello di Hospitale per designare questi luoghi che, oltre a rispondere all’istanza caritatevole, svolgevano pure un ruolo promotore e di trasformazione riguardo all’ambiente e al contesto sociale ove si situavano. Pur rientrando tra le Opere di pietas e quindi referenti sempre all’autorità ecclesiastica, in genere il vescovo, l’ospedale poteva essere gestito anche da personale laico: fratres e sorores per i quali lo stato laicale e l’istanza religiosa si fondevano. Diverse erano le figure che si potevano trovare in questi ambienti: il Portarius, che accoglieva gli ospiti, l’Hospitaliarius religiosorum e pauperorum e il Custos infirmorum erano le figure che accudivano, per i vari aspetti, più direttamente i bisognosi.

L’Hospitale non era quindi precipuamente il luogo della cura e della guarigione semmai quello del ristoro ove ospitare e nutrire; altro era il luogo, il santuario, ove, attraverso un evento miracoloso, si poteva ottenere il recupero della salute. Le cure elargite in questi ambienti dal personale, senz’altro privo di una cultura medica, erano di carattere generico: la somministrazione di un “regime dietetico” per i poveri malati, di una “potio” a base di “semplici” per lenire le sofferenze, piccoli interventi chirurgici per sanare piaghe e ferite.

Di carattere diverso era l’assistenza che veniva praticata nei monasteri per i confratelli malati. In questo ambito erano previsti spazi adibiti: la “domus medicorum”, l’abitazione del monaco medico, il “monacus infirmarius”, con il “claustrum infirmorum” e l’ “hortus simplicium” ove venivano coltivate le erbe officinali e le cui essenze erano raccolte nell’ “armadium pigmentariorum”, l’abbozzo di una farmacia monastica. Solo successivamente, dopo il concilio di Tours del 1163, fu proscritta ai religiosi lo studio e l’esercizio dell’arte medica e della chirurgia in particolare. Gli Hospitalia, a parte casi di significativo consolidamento strutturale e finanziario basato su donazioni e tributi, si caratterizzavano, almeno per l’area presa in considerazione, per una relativa lassità istituzionale e strutturale, fondandosi generalmente sulla buona volontà dei singoli che spontaneamente si aggregavano in un certo luogo, in particolare le attività di gestione e di buon funzionamento erano espletata da un Rettore che, anche dal punto di vista finanziario, doveva annualmente riferire all’autorità, originariamente ecclesiastica e successivamente civile. Ciò rende difficoltoso un tracciamento storico documentale che si sarebbe sviluppato, sotto forma di ordinamenti, registrazioni notarili, lasciti documentati solo nella loro evoluzione storica.

Ancora nel 1532 il teologo ed umanista spagnolo Ludovico Vives pubblicava la sua opera De subventione pauperum ove affermava:” […] ex pauperibus alii vivunt in iis quæ vulgo hospitalia dicuntur, græce Ptochotrophia […] Hospitalia voco, ubi ægri aluntur, et curantur , et ubi certus in opum numerus sustentatur, et ubi pueri ac puellæ educantur, et ubi expositi  infantes nutriuntur, et ubi mente capti continentur, et ubi cæci degunt: hæc omnia sciant rectores civitatis ad curam suam pertinere“.

Nel Rinascimento, con lo sviluppo dei centri urbani e delle relative signorie, emerse la necessità di individuare uno spazio, al di là dei monasteri e degli Hospitali di “strada”, nel contesto cittadino, ove erigere una fabbrica ospedaliera rispondente alla necessità del potere civile, peraltro sempre assecondato da quello religioso, di un maggior controllo sociale e politico di quelle classi marginali che, dalla povertà rurale, si spostavano in ambito urbano in cerca di migliori condizioni di vita. La nuova struttura assumeva le caratteristiche di un palazzo cittadino con una sua particolare tipologia architettonica, non più una dipendenza di chiese, monasteri o edifici isolati lungo le vie o presso i ponti.

Godevano di una autonomia istituzionale, amministrativa, espressione di una nuova organizzazione della carità. Un esempio ne fu l’ Ospedale Grande di Mantova, in San Leonardo, la cui costruzione iniziò a metà del XV secolo per volontà del Marchese Ludovico Gonzaga e Papa Nicolò V. Nell’ambito del nuovo ospedale si incomincia a discernere il malato dal povero indigente, dallo storpio, dal mutilato, dal cieco, quest’ultimi da affidare alle pie istituzioni religiose e, tra i malati, gli uomini dalle donne, gli acuti dai cronici.

Tra il ‘700 e l’800 si sviluppò una nuova tipologia di ospedale con la comparsa dei padiglioni. Tale soluzione cercava di rispondere, nel contempo, all’esigenza di una maggiore areazione ed illuminazione dello stabilimento e alla visione di una medicina orientata alla categorizzazione dei malati in base alle varie patologie. Venivano individuati ambienti ove isolare i contagiosi e spazi appositi per le attività chirurgiche. L’organizzazione a padiglioni rifletteva anche una nuova formulazione dei criteri di produttività e di controllo che caratterizzavano la rivoluzione industriale. D’altro canto questa scelta evidenziava importanti criticità quali la dispersione spaziale con la necessità di lunghi percorsi per il personale e i malati stessi quando dovevano spostarsi dalle degenze ai servizi, costi di costruzione e di gestione elevati.

Questa soluzione architettonica la si potrà vedere in abbozzo in una ristrutturazione dell’ospedale di Ostiglia e in modo più chiaro nella realizzazione, su progetto di Giulio Marcovigi, dell’ospedale di Mantova nel 1928. Nel ‘900 prevalse l’imperativo di una più razionale gestione degli spazi scegliendo soluzioni di compattezza e di sviluppo in verticale della struttura utilizzando veloci impianti di salita. Ciò è tra l’altro favorito dall’acquisizione di nuove tecniche di disinfezione che non rendono più necessari i dislocamenti delle aree di degenza. Nasceva l’ospedale “monoblocco” espressione di una sanità improntata a criteri di funzionalismo generalizzato ed efficientismo aziendalistico. Ne è un esempio l’ospedale Destra Secchia di Pieve di Coriano, completato nel 1977 su progetto di Epifanio Li Calzi, Ettore Fermi ed Enrico Fermi.

di Raffaele Ghirardi, responsabile Attività di cure sub acute Borgo Mantovano

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