L’Ospedal Grande di Mantova, una storia nata nel 1449

La costruzione andò avanti per 20 anni con inaugurazione nel 1472

L’Ospedale di Mantova, pur avendo cambiato più sedi e denominazioni, esiste ininterrottamente dal 14 marzo 1449 e prosegue la sua attività fino ad oggi. Il libro L’Ospedal Grande di Mantova, pubblicato quest’anno, narra le vicende e il funzionamento dell’Ospedale del Consorzio sotto il titolo di Santa Maria della Cornetta, detto appunto Ospedal Grande, che rimase attivo fino al febbraio 1793, quando la sua sede originaria fu occupata dalle truppe napoleoniche e trasformato in carcere per condannati ai lavori forzati.

L’atto fondativo dell’ospedale è una bolla, di cui si conserva copia in Archivio di Stato, di papa Nicolò V che autorizzava il marchese Ludovico Gonzaga a chiudere tutti i piccoli e grandi ospedali della città, a prendere possesso dei loro beni e a venderli utilizzando il ricavato per costruire l’edificio del nuovo grande ospedale, che sarebbe stato unico, laico e al servizio di tutti i cittadini mantovani poveri.

La costruzione andò avanti per oltre 20 anni e l’ospedale venne inaugurato (ancora incompleto) a marzo del 1472. L’ente era governato da un’Assemblea dei Presidenti capeggiata dal Marchese, coadiuvato da un insieme di 9 ecclesiastici: il vescovo, tre componenti del Capitolo del duomo e gli abati dei 5 principali conventi della città. L’Assemblea era completata con ulteriori 4 membri laici eletti tra cittadini mantovani prestigiosi.

L’ospedale era gestito da una trentina di dipendenti laici capeggiati da un Rettore nominato dall’Assemblea. Tra i dipendenti vi erano impiegati, archivisti, ragionieri, notai, procuratori legali, gli addetti alla gestione dei terreni agricoli dell’ospedale, gli addetti alla gestione quotidiana come il vinaio, il panettiere, il cuoco, il portinaio, gli addetti alle sale di degenza come il medico che curava i malati con febbri, il chirurgo maggiore, il chirurgo barbiere, gli infermieri, le infermiere delle donne, le donne addette al nido d’infanzia e le donne addette al bucato delle lenzuola e alla tessitura e confezionamento del camicie per i malati. Non mancava la presenza fissa di un cappellano.

L’istituzione svolgeva quattro funzioni principali: era ospedale per acuti e alloggiava fino a 120 malati circa, suddivisi per maschi e femmine e per “malati con febbri” e “piagati”; era brefotrofio e accoglieva bambini esposti che venivano abbandonati nottetempo davanti al portone dell’ospedale. In ospedale potevano essere ospitati fino ad un centinaio di bambini da zero a 14 anni. Altri (in numero variabile da 300 a 500) venivano affidati a balie abitanti in città o nei paesi del contado, dove rimanevano fino ai 5 o 7 anni di età.

L’ospedale svolgeva anche funzione di ente elemosiniero: distribuiva pane, vino e farina ai poveri della città che venivano segnalati dai capi dei quartieri, a volte anche vestiti e coperte. Infine, l’ospedale accoglieva pellegrini e viandanti di passaggio. Li ospitava e sfamava gratuitamente per 3 giorni e 3 notti.

Fisicamente l’ospedale era costituito da un edificio a due piani, piuttosto tozzo, con pianta quadrata a croce greca e 4 cortili con chiostro. I bracci della croce al pianterreno accoglievano gli uomini “con febbri” e “con piaghe”, un terzo braccio fungeva da dormitorio per i bambini esposti. Il quarto braccio era adibito a dispensa e magazzino. Al piano di sopra la disposizione era simile: il quarto braccio serviva come laboratorio tessile, i due bracci orientati verso il lago e verso la città ospitavano le donne ricoverate, mentre il braccio che oggi punta su Piazza Virgiliana era utilizzato come dormitorio per le bambine. All’incrocio dei bracci, al centro della pianta, sorgeva la cappella dedicata a S. Maria della Cornetta.

Trattamento alberghiero e cure mediche

Per statuto l’ospedale accoglieva, gratuitamente, solo infermi poveri con malattie acute. Si curavano malati con malattie infettive (febbri) e malati con manifestazioni cutanee (piaghe), traumi e ferite. L’ospedale, perpetuando il modo di operare dell’antico Consorzio, indagava casa per casa, tramite propri incaricati, nei quartieri della città o informandosi presso i parroci, se vi fossero poveri ammalati bisognosi di ricovero. Se il malato poteva essere assistito a domicilio l’ospedale inviava il proprio medico e gli forniva gratuitamente le medicine, altrimenti lo si autorizzava a presentarsi per il ricovero. In ospedale l’infermo veniva invitato a confessarsi e comunicarsi. Se non accettava, gli veniva rifiutato il ricovero. Dopo la comunione veniva visitato dal medico, spogliato, lavato e rivestito con biancheria di lino pulita. Gli veniva anche consegnato uno scuffiotto e un mantello con cappuccio per quando si alzava dal letto.

Quale che fosse l’infermità del paziente la medicina dell’epoca non poteva fare molto per guarirlo. Le armi più efficaci erano la benevolenza del personale infermieristico, le messe del Cappellano, l’ambiente di degenza asciutto, riscaldato e aereato e il vitto buono e abbondante garantito per tutta la durata della degenza (di solito da 3 a 4 settimane per le malattie infettive). Alla dimissione l’infermiere capo domandava perdono all’infermo per ogni sua negligenza e mancanza di carità, gli consegnava una grossa treccia di pane bianco come viatico e lo mandava in pace esortandolo a ringraziare Dio per la guarigione.

Di Gilberto Roccabianca, storico locale

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