Nicola Malaguti ha ritratto i più grandi, Chet Baker, Clark Terry, George Benson, Miles Davies, Brad Mehldau, Paolo Fresu: “Tutto parte dal cuore”
Prima il cuore. Poi gli occhi. Quindi la macchina fotografica. L’ordine, per lui, è questo. Nel confessarlo, si tocca la parte sinistra del petto: “Tutto inizia da qui”. Lo scatto viene dopo, molto dopo. Rende eterno un istante, condensa un meticoloso lavoro di studio e osservazione. Solo quando dell’altro si sa riconoscere ogni sguardo e movenza è possibile dare la parola alle immagini.
Quella di Nicola Malaguti, il fotografo dei musicisti, è una questione di amore. L’amore matura in silenzio, lentamente. Con l’ascolto del repertorio, la lettura di biografie: “Indago sui volti, sui vissuti. Mi innamoro del personaggio”.
Gli occhi luccicano quando passa in rassegna alcuni fra i nomi più importanti della scena del jazz o anche della classica che ha avuto l’onore di incontrare. Scegliendo talvolta di non fotografare. Per rispetto, per stima. Perché in ogni musicista coesistono due mondi. La persona, con le sue fragilità. L’artista, che “quando sale sul palco sembra inserire una spina ed è subito magia”. Come se lo strumento suonasse da sé. Così accade con Chet Baker, prima del concerto al teatro Bibiena di Mantova, nel 1988. Il mito statunitense è steso per terra in camerino, in trance. Occhi chiusi, stivali texani ai piedi, tromba stretta al torace. Il fotografo gli sta di fronte attonito. Con un ritratto forte, inedito, potrebbe fare il giro del mondo. Invece no, non scatta: “Temevo che fosse morto, speravo che si riavesse per tempo. Non volevo mostrare quel dramma umano. Io ero lì per l’incanto delle note. Quelle che poi sono arrivate, puntuali, sorprendenti”.
Perché all’ultimo Chet riemerge dalla crisi, si alza, trascina il corpo esausto in scena. Si siede fra i colleghi della band, appoggia il bocchino alle labbra e parte. Inondando il pubblico di meraviglia. Malaguti confessa di non avere immortalato nemmeno Michel Petrucciani, pur seguendolo in cinque dei suoi concerti: “In tanti cercavano la menomazione, il fenomeno, lui che portato in braccio da un gigante faceva le boccacce davanti agli obiettivi schierati. Io mi sono limitato ad ascoltarlo”.
E ancora, nel 2017, al termine di una cena con il pianista Brad Mehldau vince di nuovo il sentimento di rispetto. Di venerazione: “Gli assicurai che durante la sua performance non lo avrei fotografato. Lui si alzò in piedi, si piegò in un grande inchino e per me fu un regalo incredibile. Sapevo che aveva bisogno di concentrazione. Capisco che ho fatto bene il mio lavoro quando i musicisti mi dicono Nicola, non ti abbiamo visto. Punto a raggiungerli nella loro autenticità, mentre si esprimono. Non cerco il sensazionalismo, le pose posticce”. Così il sestetto Stradivari dell’Accademia Santa Cecilia, con i violini che riecheggiano in alta montagna, nel quadro appeso a una parete del suo studio.
C’è poi il legame inossidabile con Paolo Fresu, fiorito in provincia di Mantova, città dove Malaguti è nato nel 1961. Il jazzista sardo aderisce alla rassegna concertistica con finalità sociali Sconfinart, organizzata da anni a Suzzara e Pegognaga dalla cooperativa Chv. I fondi raccolti vanno a favore di una comunità di ragazzi disabili, per i quali Fresu diventa un idolo, un amico: “Tornava a casa con l’auto carica di salami e l’anima commossa. Di lui apprezzo molto la grande sensibilità”. Il rapporto si consolida in occasione degli eventi dei Suoni delle dolomiti e le immagini del fotografo scivolano fra le pagine del libro del trombettista La musica siamo noi.
Nel portfolio spuntano fra gli altri Clark Terry, George Benson, Miles Davies. Una lunghissima serie di stelle: “Ho mosso i primi passi al North Sea jazz festival di L’Aja. Un giorno le fotografie che in origine donavo a musicisti e agenti sono state notate e con il passaparola ho potuto trasformare la mia passione in un mestiere. In parallelo, a seguito di un grave incidente subito da mia madre, avevo aperto un’agenzia di assicurazioni che tutt’ora gestisco. Attorno ai 10 anni avevo già una macchina fotografica in mano, una vecchia Polaroid di famiglia, durante il liceo sono passato all’Olympus OM2. Nel 1980 vinsi un concorso indetto dalla Levi Strauss & Co”.
E Malaguti spolvera il ricordo della vecchia camera oscura allestita con gli amici in una cantina privata per dividere le spese. Tempi di sogni, che per lui sono diventati realtà. Tempi in cui il giovane artista si faceva le ossa imparando dai grandi, fra i quali Diane Arbus, la fotografa degli ultimi. Oggi il mentore a cui guardare è diventato lui. Coltiva talenti, insegnando all’Einap di Mantova. Uno dei suoi allievi e collaboratori è considerato un erede: “Gli ho regalato una delle mie macchine fotografiche. Lui ha pianto. Non sapeva in che modo sdebitarsi. Gli ho risposto facendo belle foto”.
L’ultima mostra di Nicola Malaguti, Musicofilia, è stata allestita nello spazio espositivo permanente dell’ospedale di Mantova dal 13 giugno. Grazie a Hallart, il progetto dell’Azienda Socio Sanitaria Territoriale, l’arte accorcia le distanze fra i luoghi di cura e i pazienti, allenta le tensioni legate alla malattia. Il fotografo racconta i musicisti attraverso le loro mani. Che toccano uno spartito, le corde di un violino, i tasti di un pianoforte o di un flauto. Così il gesto musicale è paragonabile a quello del medico o dell’infermiere. Può curare chi lo compie e chi lo guarda con gli occhi giusti. Gli occhi di chi sa che tutto “inizia da qui”. Dalla parte del petto dove batte la vita.
(Nell’immagine in homepage una foto di Nicola Malaguti che ritrae Paolo Fresu, recentemente selezionata da LFI Gallery).