L’osteria del Gatto Rosso

Pubblichiamo il racconto ‘L’osteria del Gatto Rosso’, di Enrico Aitini, che si è classificato al primo posto, categoria medici, al Premio letterario nazionale Flaminio Musa della Lilt- Lega italiana per la lotta contro i tumori.

Una strada silenziosa, nascosta da pioppi che ondeggiavano lenti, accarezzati da un leggero alito di fine agosto, mi avrebbe accompagnato all’antica trattoria di Giacomo, ribattezzata “Osteria del Gatto Rosso” per la presenza di un paffuto felino dal manto rossiccio. Ero ancora giovane in quei giorni, un oncologo che da pochi anni viveva la sua esistenza da professionista appassionato. Nella luce del tramonto non ascoltavo musica dal mangianastri, come era mia inveterata abitudine, considerato che CD e chiavette cominciavano solo allora a comparire. Fermata l’auto su di uno spiazzo erboso poco distante dalla trattoria, mi ero abbandonato ad ascoltare il silenzio lontano dei campi, ad annusare il residuo profumo dei tigli, ad ammirare i grandi platani sonnolenti, ad accarezzare filari di vite. Già immaginavo cosa ci avrebbe riservato quella sera, in quell’osteria che Giacomo aveva messo a disposizione di una decina di amici attratti da una comune passione, quell’amore per la musica che già da anni attraversava la nostra esistenza. Jam session per una cena mediterranea, tra note, armonie, poesia. Fui tra i primi ad arrivare e Giacomo mi accolse sorridente offrendomi subito dopo un verduzzo dei colli friulani da lui stesso imbottigliato. Era fresco, delicatamente aromatico e mi accorsi all’istante com’era piacevole sentirlo attraversare la gola e scendere in corpo. Arrivò Mario che, senza aspettare che Giacomo glielo offrisse, si versò, in un bicchiere da osteria riempiendolo fino all’orlo, quel fresco vino friulano. La compagnia si allargò rapidamente e dopo una mezz’ora eravamo seduti ad un vecchio, lungo tavolo d’osteria che il nostro ospite già aveva preparato all’aperto. Alcuni tralci di vite salivano lungo la facciata ripiegandosi su una struttura di ferro arrugginita: formavano un verde pergolato con le foglie più basse che quasi raggiungevano il capo di qualcuno di noi. Tra gli invitati c’era anche Alessandra, un’amica che avevo visitato qualche mese prima in day-hospital durante un normale follow-up per neoplasia mammaria. Era stata operata alcuni anni prima, ed ora, dopo la radioterapia e sei cicli di chemioterapia, seguiva un trattamento ormonale per bocca che stava ormai concludendosi. Come ogni volta prescrivevo la mammografia annuale, le raccomandavo il PAP Test e dal successivo controllo, compiuti i cinquant’anni, le avrei raccomandato anche la ricerca del sangue occulto nelle feci. Alessandra era un valente architetto, soprattutto ingegnosa nell’affrontare i problemi di urbanistica. A questa sua professione associava un amore incondizionato per il sax, conosciuto dall’estro e dai brani di John  Coltrane, Coleman Hawkins, Lester Young. Le note che uscivano dallo strumento, un sax contralto, sotto le abili dita di Alessandra ti facevano comprendere come quella ragazza, mi piaceva chiamarla così anche se aveva una quindicina d’anni più di me, sapesse riversare la sua cultura musicale, la sua passione, il suo talento, il suo amore profondo in quello strumento dorato.

Quella sera si sarebbe esibita con Riccardo al pianoforte, l’incantevole mezzacoda di Giacomo, e con Fabio al basso. Certo, non eravamo riusciti ad organizzarci per le percussioni ma pazienza, andava bene anche così. Dopo l’aperitivo, fummo deliziati da diversi brani sia di sweet che di hot jazz. Alzatomi dal tavolo mi ero sdraiato sull’erba del prato che circondava la trattoria, un’erba ricca di inconfondibili odori di fine agosto, ammirando un’impalpabile polvere di stelle che sembrava avvolgere il sound dei tre musicisti. Era buio quando Giacomo portò in tavola un’enorme zuppiera colma di spaghetti conditi con olio, foglie spezzettate di menta piperita, aglio e peperoncino. Era molto allegro quella sera e gli domandai, retoricamente, se gli piaceva la nostra compagnia. Salì con i piedi su una sedia e rivolto a tutti rispose:

“A voi amici posso dirlo, ho qualcosa da festeggiare: la vita che continua! Vi sembra poco?”.“Evviva la vita!” Rispondemmo all’unisono senza capire il perché, tra le ultime forchettate di spaghetti e tintinnii di bicchieri colmi di vino fresco, presto svuotati e riempiti di nuovo in un clima di spensierata allegria.  

“Evviva l’amicizia” aggiunse qualcuno a gran voce. Giacomo si avvicinò a me, un po’ in disparte: 

“Ricordi che quindici giorni fa mi ero sottoposto allo screening per la ricerca del sangue occulto nelle feci? Risultato: positivo. Sono stato invitato a sottopormi ad una colonscopia che per fortuna ha trovato solo un microscopico polipetto. Mi ero molto preoccupato anche se non avevo particolari disturbi comunque ora sono tranquillo, anzi felice”.

Alessandra si era avvicinata a noi due e si intromise nel discorso. Replicò, pur mostrandosi contenta della notizia, che la colonscopia non se la sarebbe mai fatta fare, stava bene, l’intestino più che regolare, non fumava da molti anni, consumava molta verdura, ogni giorno una lunga camminata, più prevenzione di quella? No, la colonscopia proprio no.

Restai sorpreso dalle sue parole ma riuscii a nascondere il mio disappunto anche se lei, probabilmente, lo colse. Com’era possibile che una persona così intelligente, attenta allo stile di vita, colta, sensibile diventasse improvvisamente così superficiale davanti a questi problemi, proprio lei che aveva conosciuto e avrebbe concluso tra non molto il percorso di una patologia tumorale? O era proprio per questo? Intanto, a pochi passi da noi, Eleonora, la più giovane della compagnia, portò in tavola una grande caraffa colma di sangria in cui annegava un vecchio mestolone di rame per servirsi. Qualcuno iniziò a raccontare di un film appena uscito nelle sale: “Mediterraneo”, di Gabriele Savatores. Mario era entusiasta di quel film che anch’io avevo appena visto ed ammirato. E così cominciammo a discorrere, con il sorriso dentro di noi, delle varie figure interpretate da Abatantuono, Cederna, Claudio Bigagli, il tenente Raffaele Montini, Bisio, Antonio Catania, l’aviatore, tenente Carmelo La Rosa di Palermo, che porta la notizia, inaspettata, della caduta del regime fascista. Ripenso a quel film ora, dopo averlo riguardato per molte volte. Davvero eccellente: avrebbe vinto l’oscar per il miglior film straniero l’anno successivo.

Accarezzati da una leggera brezza notturna, un’ora più tardi, iniziammo a salutarci: ricordo che qualcuno fischiettava “Blue Moon” mentre ci allontanavamo dall’osteria.

Alessandra, pochi mesi dopo, ricevette un’incredibile proposta di lavoro da un’impresa francese cui la città di Bordeaux aveva commissionato la ristrutturazione di un vasto quartiere: un progetto di enormi dimensioni che l’avrebbe trattenuta oltre confine per alcuni anni.

Non ebbi sue notizie per molto tempo.

Anni dopo, una mattina di settembre, camminando frettolosamente sotto i portici della mia città mi sentii chiamare per nome: mi girai di scatto. La riconobbi subito: nonostante il tempo trascorso, la “mia ragazza” si era mantenuta una bella ed elegante signora.  Mi si avvicinò e, dopo un attimo di incertezza, mi abbracciò con una stretta affettuosa, forte e contemporaneamente dolce.

“Alessandra!” esclamai e, forse per la sorpresa, non aggiunsi altro ma ricambiai il suo abbraccio con uno altrettanto forte ed affettuoso. La baciai sulle guance.

A pochi metri da noi c’era un bar. Entrammo. Davanti ad un caffè si sciolse l’imbarazzo e ci parve di tornare indietro nel tempo.

“Sai, amico mio, in questi anni mi sono riproposta più volte di cercarti per dirti una cosa importante e ora che il caso ci ha fatto incontrare…”.

“Ti ascolto”.

Incuriosito, le strinsi la mano attraverso il tavolo invitandola a parlare.

“Avevi ragione tu, caro amico. La prevenzione non esclude l’importanza della diagnosi precoce. Trasferita in Francia, otto anni fa, ho deciso di eseguire il test consigliato da te: la ricerca del sangue occulto nelle feci. Risultò positivo! Ero terrorizzata ma a quel punto andai avanti ed una colonscopia successiva evidenziò un tumore del colon, in stadio iniziale, per fortuna. Mi hanno operato a Bordeaux dove vivo da allora. Fortunatamente, non ho avuto bisogno di fare altre terapie. Sono trascorsi otto anni e mi sento ringiovanita, forse anche per il pericolo scampato”.

Le strinsi più forte la mano che tenevo tra le mie, mentre parlava.

“Ricordo bene quella famosa cena all’osteria del Gatto Rosso. E ricordo anche il tuo atteggiamento negativo nei riguardi della prevenzione secondaria…Sono davvero contento che tu ti sia ricreduta…”.

“Beh, molto lo devo al tuo sguardo rattristato mentre pronunciavo, apoditticamente, quelle mie sciocche frasi di rifiuto sull’argomento. Ma ricordo altrettanto bene gli spaghetti, il buon vino, la sangria e …la nostra giovinezza”.

“Un po’ di nostalgia per come eravamo la sentiamo tutti… e il sax?”.

“Lo suono ancora. Pensavi che avrei potuto mai abbandonarlo? A Bordeaux vivo con un compagno, anche lui architetto, ma soprattutto musicista, un pianista che ama e suona jazz. Cosa mi poteva capitare di meglio nella vita?”.

Parlammo ancora un po’. Ci salutammo con una stretta di mano promettendoci di non perderci di vista o almeno di sentirci ogni tanto al cellulare.

Conosco bene queste frasi: forse non ci saremmo mai più rivisti o sentiti.

Ripresi a camminare sotto i portici, con un filo sottile di malinconia che velava appena il sorriso spontaneo apparso sulle mie labbra. Ero diretto in ospedale. I miei pazienti in sala d’attesa mi videro arrivare canticchiando, e forse anche questo era un modo per creare un clima più rassicurante, un motivo fischiettato in quel lontano giorno, nel ricordo di una cena tra amici avvolta dalla luminosa polvere di stelle future.

“Blue moon, you saw me standing alone…”.

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