Il racconto che pubblichiamo di seguito è di Mattia Venturini, tecnico di radiologia dell’ASST di Mantova. È tratto dal libro ‘Il teatro delle attese’. Da questo volume, nell’ottobre 2017 ha preso vita il progetto ‘Entropia’, la rockband letteraria che si esibisce a scopo benefico per ricavare fondi da destinare alle associazioni locali per disabili.
La scelta del nome si basa sulla seconda legge della termodinamica, che spiega lo scambio di calore: in questo caso vi è uno scambio di emozioni con il pubblico. Il progetto Entropia consiste concretamente nella lettura di testi accompagnati da un sottofondo musicale, con musicisti professionisti, per poi eseguono il brano vero e proprio. Il genere è classic rock. In cambio viene chiesta agli spettatori un’offerta libera che viene devoluta ad associazioni locali. Tra queste la Quercia, Isidora o Iom.
La cicatrice sul petto
Lunedì 18.30 spinning. Martedì 18.00 nuoto. Giovedì 19.00 zumba. Sabato mattina jogging nel parco. Mi chiamo Monica, ho 48 anni e conduco una vita normale, senza imprevisti e senza impennate emozionali e di questo non mi lamento. La maggior parte delle persone non apprezza la normalità, perché probabilmente non si rende conto di quanto sacrificio possa costare riprendersi la tranquillità perduta. Spesso ci si vuole complicare la vita per noia. Le impiegate, le casalinghe, le dottoresse, le bariste, le madri e le figlie si fasciano la testa con bende zuppe di pessimismo ed insoddisfazione, si chiudono in casa ad ingurgitare gelato, gettando tempo alle ortiche. Alle donne che si piangono addosso, preferisco di gran lunga le donne in carriera, perché quelle sono coriacee e se ne fottono delle rughe e dei sentimentalismi. Le donne in carriera si sforzano ogni giorno di combattere contro il tempo, a loro servirebbero giornate da trentasei ore. Io sono contenta di quello che ho ed apprezzo la monotonia della mia vita in tutte le sue sfaccettature, perché anche una superficie piatta, se guardata controluce, ha le sue piccole imperfezioni e a me quelle piccole imperfezioni bastano. Io sono felice: ho un marito fedele ed una splendida figlia e corro, corro più veloce del tempo che cerca di agguantarmi con le sue lunghe dita adunche. Amo mio marito: lo amo da quando mi inciampò addosso in discoteca, il 21 febbraio 1999. Mi tengo in forma più per lui che per me. Vivo nell’ossessione che lui possa guardare altre donne, che lui possa preferire una donna diversa da me. Jodorowsky diceva che il tempo dissolve il superfluo e conserva l’essenziale, ma a noi donne piace crogiolarsi dentro al superfluo e la vanità femminile è già essenziale di per se. Mio marito, il mio cavaliere, il mio amante, la mia metà, è stato proprio lui, in uno di quei nostri momenti di accesa intimità e imperturbata passione, a scoprire, con le sue mani ruvide e callose da artigiano, quel mio difetto: quella mia diversità intrinseca.
Poi ci fu quella sottile spada che mi infilarono nel petto con precisione millimetrica: la spada della nemesi, che mi trafisse l’anima e vomitò su di un piccolo vetrino rettangolare l’ineluttabile verità dell’evanescenza umana.
Andai sola un giovedì mattina, che sembrava uguale a tanti altri, a ritirare quel foglio di carta riciclata, che decantava l’ineluttabile entità del mio difetto. Strinsi forte quello stupido foglio e vi conficcai le unghie nella speranza che quelle parole così pesanti e tecniche si sciogliessero, lasciando solo un foglio bianco dove poter scrivere: non è vero. Invece quel difetto era vero, vivo e palpabile. Quel giovedì qualunque si rivelò essere “quel giovedì mattina”di fine primavera. Stizzita e affranta, nascosi quella busta gialla nella borsa con uno spasmo di rabbia sporca di vergogna. Una volta a casa, come implacabili cavalieri dell’apocalisse, subentrarono la paura ed il dolore. Si fece sera e preparai la cena con il vano intento di seppellire tutto quello sgomento sotto al fango della routine. Puntuali rincasarono mio marito e Julia, la mia unica figlia di 27 anni. Quando li vidi non ressi all’impatto emotivo e mi nascosi in bagno. Seduta sul bordo della vasca ripercorsi tutta la mia vita, come si dice accada mentre stai per morire, ma io non avevo paura di morire, avevo paura di cambiare: di non essere più la loro madre, la loro moglie, la loro Monica. Scoppiai in un pianto liberatorio e mentre deglutivo l’angoscia a singhiozzi, salì dolcemente in me la flebile convinzione che mio marito e mia figlia non meritavano quella debolezza, ma meritassero una reazione decisa. Fui costretta a giocare il tanto blasonato ruolo di donna in carriera, tutta di un pezzo: una donna di ghiaccio alle porte dell’estate. Attesi che il rossore degli occhi intrisi di pianto sbiadisse e tornai in cucina. Comunicai loro il crudo responso del referto istologico, trattenendo nelle pupille stanche quelle lacrime stanziali, pronte ad inondare con irruenza la mia fermezza di spirito. Il tintinnio delle forchette sul piatto si interruppe bruscamente e anche le scaloppine ai funghi che avevo preparato per cena, sembravano ritrarsi nell’imbarazzo dell’incredulità. Julia evase dal silenzio con un pianto quasi isterico, probabilmente per la paura di poter trovarsi prima del tempo a galleggiare da sola in un oceano torbido e pieno di inganni. Mio marito invece si ammutolì in un nobile contegno. Strinse forte il tovagliolo tra le dita, deglutendo un greve nugolo di mestizia, annaspando in una commozione asciutta. Un uomo che siede a capotavola con i capelli ancora intrisi di intonaco e calcestruzzo non può piangere davanti a moglie e figli, offrendo gratuitamente la sua nuda debolezza senza trattative. Uomini come mio marito piangono da soli, sul furgone, mentre vanno al lavoro e per non sentire il rumore dei loro singhiozzi, si portano alla bocca una lucky strike ed alzano il volume della radio.
Ebbi a disposizione poco tempo per mettere a fuoco tutto quello che stava accadendo e stilare un efficace planning terapeutico: in queste situazioni le decisioni devono essere prese velocemente, perché qui il tempo si fa stretto stretto come un magione di lana lavato in acqua fredda.
Arrivò il giorno dell’intervento e prima di entrare in sala operatoria realizzai che la vera diversità non è l’anticonformismo, l’urlo fuori dal coro o tingersi i capelli di blu elettrico: la vera diversità è quella che non scegli, quella che ti viene imposta. Nessuno sceglie di essere malato o di nascere con degli handicap: gli capita e basta ed è costretto ad accettare la sua diversità senza obbiettare.
Ero la seconda paziente nella lista e alle 10.15, puntuali come esattori delle tasse, vennero a prendermi per portarmi in sala operatoria. Mio marito mi baciò la fronte e voltai lo sguardo verso gli occhi liquidi e impauriti di Julia: sono sicura che l’intervento senza anestesia mi avrebbe fatto meno male rispetto a quel incrocio di sguardi. Mi misero una cuffia verde e un camice di carta. La sala era gelida: il freddo mi penetrava nelle ossa. Poi vidi il tavolo operatorio, sembrava mi stesse aspettando pazientemente, come la croce che aspetta il Cristo, famelica di sacrificio. Infermieri solerti volteggiavano per la sala dentro le loro divise verdi, tra alte piantane in ferro, da dove penzolavano sacche di flebo come panni stesi al sole. Uomini e donne vestiti di verde e teli verdi ovunque. Ignoro il motivo per il quale il verde sia il colore della chirurgia, ma a me piace pensare che lo sia perché il verde è il colore della speranza. Verde deriva dal latino virdem che significa vivo. Erano tutti gentili e sorridenti, come se volessero far finta di nulla a riguardo del mio male: mi sentivo come una bambina, che durante il pranzo di Natale ascoltava il vociare degli adulti senza capire nulla, abbandonata alla mercé delle sue infantili intuizioni.
Incominciarono a bucarmi con aghi che così grossi non li avevo mai visti, ma sempre con il sorriso, perché con il sorriso tutto fa sempre meno male. In quel momento avrebbero potuto farmi qualsiasi cosa, ma io con la mente ero altrove: ero al mare, sdraiata al sole e con la mano mi riparavo gli occhi dal sole di luglio, per vedere mio marito, che in acqua, faceva giocare la piccola Julia.
Entrarono i medici, alla radio trasmettevano Heroes di David Bowie. Io fissavo le loro mani ancora umide dal lavaggio preoperatorio e pensavo che quelle mani stessero per diventare l’assoluzione ai miei peccati, che si erano rappresi in un’unica massa informe, incastonata nel mio seno. L’anestesista, un giovane fresco di specializzazione, mi mise la maschera dell’ossigeno davanti alla mia bocca arida e accarezzandomi la fronte mi disse di contare fino a dieci. Poi il nulla, un sonno farmacologico senza sogni, una tela bianca su cui poter disegnare i limiti dell’infinito. Fluttuavo in una dimensione senza tempo e senza dolore: forse la morte è così. Un oblio intonso.
Dopo un tempo indefinito mi destai da quel sonno indotto, spalancai gli occhi e le luci scialitiche mi accecavano come ufo intenzionati a conquistare il Pianeta. Ero intontita e mi svegliai completamente solo una volta arrivata nella mia stanza: la numero 23. Non mi importava come fosse andato l’intervento: mi importava solo rivedere mia figlia e mio marito, sentire le loro voci e stringere le loro mani. Appena li vidi fu come inciampare in un anfratto di paradiso. L’intervento era comunque riuscito.
L’effetto degli analgesici stava svanendo ed il dolore stava lentamente prendendo la rincorsa per insinuarsi ed espandersi dentro la mia carne. Con il petto cucito come un vecchio calzino rammendato, cercai di distogliere la mia attenzione dalla fisicità del Male e pensai a mia figlia, a quando per la prima volta, ferma in un letto di ospedale come questo, me la portai al seno per allattarla. Mi sembrava di riprovare ancora quel dolore provocato dalla suzione, ma quello è un dolore che si fa impercettibile, perché soffocato dall’amore materno. Il dolore che provavo ora, dopo l’intervento, era ben diverso: era un dolore dittatoriale, fermo ed assoluto, che non si lascia soffocare da niente, un dolore imponderabile. Questo è un dolore che ti fa diventare piccolo piccolo e ti mette a nudo di fronte all’amara consapevolezza di poter essere solamente passiva davanti al cambiamento: la tua lotta è accettare il cambiamento e rimanere te stessa anche dentro di esso. Così come ti cambia la vita avere un figlio, la vita te la cambia anche avere il cancro. Il cancro è un figlio di un padre ignoto, è un figlio che ti cresce dentro e divora la tua essenza senza parsimonia. Il cancro non geme, non piange quando ha fame, si nutre di te: è un parassita che si cela dietro ad un sordido mutismo. Tu diventi genitrice di un ingrato cucciolo di buio.
La mutilazione chirurgica non bastava: avevo vinto una battaglia ma non la guerra. Anche se dal follow-up clinico non emergevano metastasi in altri organi, dopo dieci giorni dall’intervento incominciai i cicli di chemioterapia, per bruciare le eventuali “uova” che il figlio inaspettato avrebbe potuto depositare in qualche recesso del mio corpo.
Il giorno della prima seduta entrai in una stanza illuminata da pallide luci al neon, dove una decina di donne, accomodate su poltrone reclinabili in finta pelle, avevano ognuna una flebo collegata alla vena del braccio. Alcune “privilegiate” avevano la flebo raccordata ad un piccolo catetere che fuoriusciva dal collo come in un film di Ridley Scott. Era come essere stata invitata ad un esclusivo salotto tutto al femminile, anche se addosso a quelle donne, di femminile rimaneva ben poco. Il primo giorno provai un profondo disagio, perché mi sentivo diversa da loro. Percepivo gli occhi vacui e scarni di quelle donne diafane, con la testa cinta di bandane e foulard dai colori sgargianti. Mi sentivo inibita da quella mia effimera diversità, che nascondeva ancora quei tratti patologici che, in un futuro imminente, mi avrebbero accumunato a loro. Un’infermiera professionale mi fece accomodare e dopo qualche minuto anche io avevo il mio cocktail colorato da assumere per via endovenosa: anche io incominciavo a far parte di quell’elite oncologica.
Anche in micro comunità come questa si forma inconsciamente una struttura gerarchica, dove la paziente più anziana ed estroversa diventa la “paziente alfa”: la capobranco. La prima a presentarsi fu Franca, una donna di 59 anni. Lei iniziava la terapia al mattino presto, per motivi che non sapevo: quando io iniziavo, lei finiva. Alla mia prima seduta, non appena l’infermiera le tolse la flebo, Franca si diresse verso di me, mi afferrò energicamente la mano portandosela al petto e con voce squillante e decisa mi disse: “Ciao cara, io sono Franca e qui sono la nonna: qua siamo tutte speciali. Ormai questa la considero la mia seconda casa: sono quattro anni che ciondolo da un ospedale all’altro, ma se Dio vuole questo è il mio ultimo ciclo, poi mio marito mi porta tre mesi in montagna e chi si è visto se visto!!”- mi disse con occhi indomiti e straripanti di speranza. Il sorriso che le si dipingeva sul volto gonfio e scuro, sprigionava una vitalità tale, da sembrare uno schiaffo del mare che si infrange sugli scogli di corallo consunto. Franca era una deflagrazione continua, un temporale estivo che non conosceva autocommiserazione o stati depressivi. Franca aveva già perso la sua guerra e forse in cuor suo teneva la rassegnazione chiusa sotto chiave, ma questo non la scalfiva. Sono i deboli che gettano la spugna e si ritirano dopo la sconfitta: i vincenti, quelli veri, quelli speciali, la sconfitta la posano sull’altare della coscienza e dalla sconfitta forgiano un inizio, un nuovo traguardo. “l’uomo può essere ucciso ma non sconfitto” sentenziava il vecchio Hemingway. Gli eroi non demordono e continuano a combattere anche se sanno già di avere la sconfitta in tasca.
Io non ero nemmeno a metà del mio percorso e ben presto incominciai a diventare simile a quelle donne. Il viso si gonfiò inglobando nei connotati patologici le linee accattivanti del mio volto, i capelli si lasciavano cadere tra le mie dita opache come corpi di soldati esausti tra le gelide trincee, lasciandomi la testa calva, simile a quella di un neonato, come se fossi iniziata ad una rinascita. Le terapie mi tolsero tutte le noie del ciclo mestruale, ghigliottinando l’ultimo spiraglio fisiologico di donna che albergava in me. Ora facevo parte del branco: anch’io ero una diversa tra le diverse. All’inizio mi trovai smarrita e spersonalizzata, perché vedevo la mia femminilità svanire come un sogno inghiottito dalle prime luci dell’alba. Incominciava a delinearsi la presenza spettrale dell’emarginazione e del pregiudizio. La mia prima reazione fu nascondermi, come il bambino che, nelle notti buie senza luna, si ritrae sotto le coperte, perché terrorizzato dall’uomo nero. Poi vinsi la battaglia più importante della mia guerra: riuscii ad accettarmi. Seduta dopo seduta incomincia ad ambientarmi e a sentire quell’intimità che aleggiava in quella stanza d’ospedale dalle pareti azzurre. Sembravamo vecchie conoscenti che si trovavano dal parrucchiere: c’era chi leggeva romanzi d’amore, chi libri gialli, chi si impicciava negli scandali delle riviste patinate e chi leggeva la Bibbia. Morena parlava poco e stava sempre con il capo chino, assorta nei passi della Bibbia. La invidiavo molto. Io invidio molto chi in queste circostanze ha un Dio cui demandare la propria sorte. In momenti come questi credere in un Dio è un vantaggio enorme, soprattutto quando lui sta dalla tua parte.
Tutto stava diventando routine. Al mattino prima di andare a fare la terapia, preparavo la colazione per mio marito e Julia e poi, senza recar disturbo, andavo verso l’ospedale, con il finestrino dell’auto un po’ abbassato perché mi piace sentire l’odore delle mattine d’estate. La mia vita e quella dei miei familiari si assestarono sui quei ritmi. Capitava che stessi male e spesso mi ritrovavo abbracciata alla tazza del bagno a vomitare l’anima, quasi fossero le nausee mattutine della gravidanza. Capitava che mi sentissi debole, ma le debolezze non vanno mai prese sul serio, mi sforzavo di vedere i tratti positivi della situazione.
Il destino mi aveva concesso il privilegio di poter cambiare look ogni volta che volevo. La mattina, quando mi guardavo allo specchio, potevo scegliere un “rosso Jessica Rabbit”, un caschetto “alla Valentina di Crepax” o uno sgargiante “biondo Marilyn. La mia mise non doveva però essere troppo diversa rispetto a quello del giorno prima per non scompensare Giuseppe, il macellaio che da anni mi fa il filo e soprattutto le altre donne, che al supermercato sgranavano gli occhi, tarantolate dalla curiosità di sapere quale fosse il mio male: intestino? Pancreas? Mammella? Fegato? Polmone? Non appena varcavo l’uscio della bottega, partiva il “totocancro”. Tuttavia non biasimo quelle donne curiose, poiché si sa, che parlare delle disgrazie altrui, fa digerire meglio la noia quotidiana.
Anche per me arrivò l’ultimo ciclo di terapia, il tempo passava, restituendomi quel superfluo perduto, come il mare restituisce alla terra ferma ciò che non fa parte del suo mondo. I capelli ricrebbero e il viso si riaccese riacquistando le sue forme. Non persi la mia diversità, non la dimenticai. Quella diversità mi è rimasta dentro, insieme a tutti gli sguardi di quelle donne, a tutte le parole veniali e taglienti, ai pettegolezzi, ai pianti e alle confidenze fatte in corsia. Non ero più la Monica di prima e nemmeno volevo tornare ad esserlo. Sono passati quattro anni e alcune volte sento ancora una fitta al petto, come una vecchia frattura che pulsa prima che si metta a piovere, ma credo che quella fitta sia più che altro il pianto del figlio abortito. Come disse Robert Frost “riassumo tutto quello che ho imparato sulla vita in tre parole: Si Va Avanti”. Quando allo specchio fisso la mia cicatrice, penso spesso a Franca, a Morena, a Teresa e a tutte quelle donne speciali e rese diverse senza diritto di replica. Mi capita di pensarci mentre accarezzo la pancia di mia figlia Julia, incinta di sette mesi: la vita va avanti, lo spettacolo continua, io continuo a correre, tutto il resto son dettagli.