Un’infermiera racconta in un libro la sua esperienza di vita e lancia una community social: “Occorre mettere le famiglie nelle condizioni per curare questi malati”
di Elena Miglioli
Responsabile Area Ufficio Stampa, Comunicazione e Urp ASST di Mantova
“Dietro ogni problema c’è un’opportunità”. Ne è convinta Stefania Piscopo, quando parla della sua esperienza di infermiera-caregiver della madre malata di Sla. Un’esperienza drammatica e complessa, ma umanamente ricchissima che l’ha portata ad aprire una strada di condivisione con chi, come lei, dalla stessa ‘porta stretta’ è passato. Ne sono nati un libro Mi manca la tua voce – Da figlia a caregiver, contro la SLA, una pagina Facebook e una pagina Twitter. Il vissuto di Stefania è singolare, proprio per la professione che svolge e apre finestre di riflessione sul ruolo del familiare che si trova ad assistere un malato a domicilio.
Cosa ti ha spinta a raccontare la tua storia?
Nel dicembre 2018 a mia mamma è stata diagnostica la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Mi sono ritrovata dall’altra parte della barricata diventando una caregiver a tempo pieno. Ho voluto testimoniare come tutto sia cambiato per me e la mia famiglia, provando a essere anche una sorta di manuale di sopravvivenza alla SLA. Il libro, che ha una prefazione di Mina Welby, racconta la fatica, la paura, la disperazione di non poter fare nulla per arrestare la malattia e lo fa col punto di vista di un’infermiera- Che però è anche, e soprattutto, una figlia.
In che modo la tua professione ti ha aiutata, ma magari ti ha anche messa disagio di fronte a un genitore…?
Io parlavo la stessa lingua dei medici e questo è stato un valore aggiunto. Dopo dieci anni trascorsi all’ospedale di Magenta nell’area dell’Emergenza-Urgenza avevo una preparazione indiscutibile. Il più grande rammarico, però è stato quello di avere sacrificato il ruolo di figlia a favore di quello di infermiera…una posizione spesso conflittuale. Dopo un anno di malattia, mia mamma è mancata. La situazione è precipitata in poche ore, perché lei aveva chiesto di non essere tracheotimizzata. Anche in questo caso, da infermiera ero d’accordo con la sua scelta. Da figlia, egoisticamente, l’avrei voluta con me più a lungo. Mi manca molto, però sono contenta, perché se n’è andata come ha voluto. La volontà del paziente viene prima di tutto.
Cosa comporta il ruolo di caregiver e come lo hai affrontato?
Fortunatamente, poco prima della diagnosi ero passata a lavorare in un ambulatorio privato. Amavo molto il mio lavoro, ma i turni e l’emergenza sono usuranti. Dico fortunatamente, perché questa scelta di vita mi ha consentito di avere più tempo a disposizione per mia madre. Tuttavia, ho dovuto chiedere il part-time, farmi affiancare da una persona la notte e ricorrere all’aiuto dell’Hospice di Abbiategrasso, che è stato preziosissimo. I professionisti delle Cure Palliative sono angeli, ma non bastano a sostenere una situazione del genere. Fatico a immaginarmi come un caregiver che non sia un operatore sanitario possa farcela. È una figura non sufficientemente riconosciuta. Servirebbero contributi, forse anche una retribuzione, perché bisogna chiedere ferie, permessi, rinunciare a metà stipendio per gestire un malato in casa. E poi occorre una formazione adeguata: bisogna conoscere i farmaci, ricevere nozioni sui macchinari da utilizzare e sulle questioni pratiche. Le dimissioni devono essere protette. Occorre mettere le famiglie nelle condizioni di potercela fare.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza sul fronte personale?
Quello che sono, sia come persona che come infermiera, lo devo a mia mamma. È stata una grande mamma, una grande donna, che ha seminato tanto amore: io e i miei familiari ne stiamo raccogliendo i frutti. Lei stessa mi aveva detto: “Questo inferno non può essere inutile, deve servire a qualcosa”. Penso che il libro e le pagine social vadano nella direzione che lei avrebbe desiderato. Creare una community, fare rete con chi vive la stessa esperienza, sentirsi meno soli. Parte del ricavato della vendita del volume verrà devoluta all’Hospice di Abbiategrasso che ha preso in carico mamma e tutti noi. Perché è l’intera famiglia ad ammalarsi. Ma anche a ritrovarsi. Per noi il dolore non è stato vano: ci ha aiutati a sentirci più uniti che mai.