Alessandro Cuomo, professore universitario: “Ogni generazione ha la sua ansia: cambiano i fantasmi, ma resta il cuore che batte troppo forte”
Lo scorso 3 settembre, in occasione di Festivaletteratura, si è tenuto un incontro per approfondire in modo divulgativo la neurobiologia e la clinica dei disturbi d’ansia e della depressione. L’iniziativa, fra gli eventi collaterali della rassegna letteraria, era di massima rilevanza per la fama internazionale dei relatori: i docenti universitari Andrea Fagiolini e Alessandro Cuomo. Titolo suggestivo: “Circuiti spenti e menti offuscate”. A organizzare l’evento Asst Mantova, in collaborazione con Ippogrifo Cooperativa Sociale, società cooperativa sociale con sede a Mantova che da anni gestisce in convenzione con l’azienda socio sanitaria territoriale comunità residenziali per pazienti psichiatrici e dal 2022 ha avviato l’attività educativa e formativa sperimentale Mantua Farm School. Alessandro Cuomo, professore associato di psichiatria dell’Università degli Studi di Siena, approfondisce le tematiche affrontate durante l’incontro.
Professore, l’ansia sembra una parola abusata. Come possiamo definirla in modo scientifico ma comprensibile?
L’ansia è un sistema di allarme del cervello. Non è debolezza né fantasia: è il risultato di circuiti precisi che coinvolgono amigdala, corteccia prefrontale, insula e l’asse dello stress. Quando questi circuiti funzionano bene, l’ansia ci protegge, ci prepara a una sfida. Ma quando restano accesi troppo a lungo, diventano patologici: insonnia, tachicardia, pensieri catastrofici. Oggi sappiamo che oltre 300 milioni di persone nel mondo convivono con un disturbo d’ansia: è la condizione psichiatrica più diffusa.
«L’ansia è come un allarme: utile se suona quando c’è un incendio, devastante se resta acceso ventiquattro ore su ventiquattro.»

Lei parla di “ansia nelle generazioni”. In che modo cambia da epoca a epoca?
L’ansia è un filo che lega epoche diversissime. I nostri nonni temevano le sirene dei bombardamenti, i Baby Boomers la minaccia nucleare, la Generazione X l’incertezza economica, i Millennials la precarietà del lavoro. Oggi i giovani della Generazione Z vivono la “climate anxiety” e l’ansia da iperconnessione digitale. Non è mai la stessa maschera, ma è sempre la stessa voce. Studi epidemiologici ci dicono che 1 adolescente su 3 ha avuto un disturbo d’ansia e che i suicidi tra i 10 e i 14 anni sono aumentati del 200 per cento negli ultimi 15 anni.
«Ogni generazione ha la sua ansia: cambiano i fantasmi, ma resta il cuore che batte troppo forte».
Qual è la relazione tra paura, ansia e depressione?
La paura è un’emozione acuta, di fronte a un pericolo reale. L’ansia è la sua sorella cronica: è paura del futuro, di ciò che potrebbe accadere. Quando l’ansia resta accesa troppo a lungo, il cervello si esaurisce: nasce la depressione, fatta di stanchezza, perdita di speranza e nebbia cognitiva. La ricerca mostra che circa il 60 per cento delle persone con ansia sviluppa anche depressione. La buona notizia è che, a differenza delle malattie neurodegenerative, questa “disconnessione dei circuiti” è reversibile se curata precocemente.
«La paura ci salva, l’ansia ci logora, la depressione ci spegne: sono tre facce dello stesso continuum».
Perché oggi parliamo di “tragedia silenziosa” nei bambini e negli adolescenti?
Perché i dati sono drammatici: 1 bambino su 5 ha problemi di salute mentale. In 15 anni, l’ADHD è aumentato del 43 per cento, la depressione adolescenziale del 37 per cento. I bambini di oggi sono iperstimolati da schermi e gratificazioni immediate, ma privati di sonno, gioco libero e genitori emotivamente presenti. Questo crea ansia, irritabilità, difficoltà di concentrazione. La prevenzione non è futuristica: è tornare alle basi – routine, limiti chiari, movimento, connessione emotiva.
«Abbiamo dato ai bambini tutto ciò che volevano, ma non ciò di cui avevano davvero bisogno».
Quali sono oggi i tre principali strumenti di cura per ansia e depressione?
Oggi abbiamo tre pilastri:
1. Psicoterapie evidence-based come CBT e ACT, che allenano il cervello a regolare i pensieri.
2. Farmaci: SSRI e SNRI sono il gold standard, con alternative mirate come pregabalin o buspirone.
3. Stili di vita e prevenzione: sonno regolare, attività fisica, digital detox. La novità è che non sono interventi separati, ma sinergici. L’ansia non si elimina, si regola.
«Non basta spegnere l’allarme: bisogna riprogrammare il sistema che lo fa scattare».
Spesso si pensa che chiedere aiuto sia un segno di debolezza. Perché è così pericoloso questo mito?
Perché il tempo è prognosi. Nelle psicosi il ritardo medio alle cure in Europa è 9–12 mesi, e questo peggiora gli esiti. Lo stesso vale per depressione e ansia: più tardi si interviene, più è alto il rischio di cronicizzazione. Secondo l’OCSE, oltre il 50 per cento delle persone con disturbo mentale non riceve mai cure: non per mancanza di terapie, ma per stigma e vergogna.
«Non è un segno di fragilità chiedere aiuto, è l’atto più coraggioso che possiamo fare per cambiare la nostra vita».
Lei ha scritto oltre 150 articoli scientifici. Qual è il filo rosso della sua ricerca?
Ho lavorato sulla depressione resistente, sui disturbi bipolari, sulle psicosi, sull’aderenza terapeutica e sugli antipsicotici long-acting. Ho esplorato l’uso dell’esketamina e di nuove molecole per la depressione, e studiato il ruolo dell’infiammazione sistemica come ponte tra mente e corpo. Oggi mi interessa la psichiatria di precisione e digitale: come portare cure personalizzate, veloci e integrate nella vita quotidiana.
«Il filo rosso è uno: trasformare la scienza in possibilità concrete per ridare respiro e futuro alle persone».