Quelle maledette parole che non curano e fanno male

Le frasi da non dire portano a un’esperienza di gruppo multifamiliare alla base della riabilitazione

Maledette Parole’ è il titolo di un libretto co-costruito da utenti e operatori in cui vengono evidenziate frasi ricorrenti che al posto di essere terapeutiche in realtà fanno male e quindi fanno ammalare. Queste male-dette parole sono diventate protagoniste e ispiratrici per la nascita di una nuova esperienza di gruppo nel servizio di Salute Mentale, i gruppi multifamiliari.

La figura di riferimento di questo approccio è uno psicanalista argentino, Jorge Garcia Badaracco che intravede nella genesi del disturbo psichico l’ipotesi della centralità della relazione ‘con un oggetto interno che fa impazzire’. L’oggetto in questione è il genitore odiato perché responsabile della prima ferita sentita come perdita di sé. Nasce una ‘Follia a due’: il paziente introietta l’oggetto e rimane intrappolato in una relazione simbiotica che provoca ansia, ma che lo gratifica in modo inconscio permettendogli di non sentirsi vuoto e solo. Il genitore intrusivo ed espulsivo genera un trauma in cui il bambino sin da piccolo affronta modalità di comunicazione incomprensibili.

Queste parole ci spiegano quanto sia importante tenere in considerazione il contesto sociale e in particolare quello famigliare nella pratica riabilitativa, anch’esso intrappolato in un’interdipendenza patologica. Il poter operare su questo contesto permetterà di modificare in modo positivo la vita del paziente anche nel momento della dimissione.

Il nostro gruppo si caratterizza per non avere un conduttore-specialista e le famiglie che non riescono ad affrontare i propri meccanismi disfunzionali sono in grado di rifletterci e modificarli attraverso l’osservazione e la riflessione sui dialoghi degli altri partecipanti che riescono a descriverli.

Le parole degli utenti diventano portatrici di una nuova cultura e sopprimono il divario tra malattia e salute trasformando e rileggendo l’aggressività in esso contenuta. Il gruppo si riunisce una volta al mese in un grande salone che vede una partecipazione media di 50 persone e l’intreccio transgenerazionale di sorelle, mariti, nonni, genitori, operatori e utenti delle due comunità fa scaturire ‘nuove organizzazioni individuali e famigliari al tempo stesso’.

La durata del gruppo è di 90 minuti e inizia con la lettura da parte di un partecipante delle regole che costituiscono la struttura della riunione. Il medico psichiatra responsabile delle comunità non interviene in modo che le dinamiche interpersonali abbiano la meglio sugli aspetti clinici. Non esiste una scaletta di argomenti preordinati, ma essi nascono in modo spontaneo e generano tra i presenti domande e risposte con parole coraggiose che poco si sentono in ambienti più istituzionali. Le riunioni vengono documentate da un verbalizzatore.

Al termine della riunione è previsto un debriefing della durata di 40 minuti in cui l’equipe si confronta sugli argomenti emersi dalle dinamiche del gruppo in relazione al rapporto tra operatori e utenti nel quotidiano. In una riflessione più ampia i partecipanti che si sono trovati più in difficoltà sono stati gli operatori invitati a svestirsi del loro ruolo per parlare di sé; non sono abituati e sono in difficoltà a parlare incontrando e rivelando contenuti personali.

Inoltre, inizialmente i gruppi si caratterizzavano per la presenza costante di applausi che creavano un clima autocelebrativo mentre dopo un anno i silenzi permettono ora riflessioni profonde e anche critiche al servizio. I famigliari non partecipano più solo nel ruolo unico di supporto agli utenti, ma anche da soli come individui in cambiamento. Si inizia a riflettere dando un senso al dolore che come dice Alfredo Canevaro: “Non serve solo piangere, bisogna sapere che sapore hanno queste lacrime”.

A cura dell’equipe operatori CRA-CPM

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